Capitolo 34

Sestiere San Marco. Contemporaneamente.

Ora italica 4:00.

 

Il comando è solitudine.

Solo, al fiacco cono di luce di un mozzicone di candela, Mattio Mellan se lo ripeteva fino all’ossessione.

Seduto nel pòrtego della casa che il Consiglio dei dieci gli aveva assegnato in piazza San Marco, ingollò un altro bicchiere di Cordiale.

Ma più beveva, più la tristezza si accentuava. E non era certo per l’indagine che, tra alti e bassi, era ancora comunque nelle sue mani. Era per tutto il resto: per il ruolo che occupava nella società, che lo faceva sentire in trappola, e soprattutto per come era cambiata la sua vita una volta che lo aveva ottenuto.

A cinquantatré anni suonati si era innamorato una sola volta, di una donna già sposata, ma, com’era prevedibile, era finita male, perché lei aveva scelto di restare con il marito. Non poteva certo biasimarla…

Quanto tempo gli rimaneva per cominciare a vivere davvero? Per farsi finalmente una famiglia? A dispetto della sua immagine, che lo faceva apparire ai più felice e fiero, si sentiva come in una gabbia. Il peso delle decisioni che lo avevano portato a capo del satellizio era diventato quasi insostenibile. E più beveva per sfuggire dalla frustrazione che provava, più gli errori della sua vita diventavano evidenti.

E se quella volta…? Se da giovane non avesse deciso di…?

Fissando il bicchiere vuoto si ritrovò e pensare agli elementi positivi della sua esistenza. Dovevano pur essercene…

Van Axel. Ecco, sì, Lodovico Van Axel, che lo chiamava affettuosamente barba, zio. Incredibilmente, sotto i fumi dell’alcool, quello era uno dei pochi aspetti positivi della sua vita. Ma era normale che tutto si riducesse a così poco? Un nipote neppure di sangue, un amico, forse neanche così intimo; il surrogato di un figlio, quello sì…

Bevve ancora avidamente e poi, come faceva sempre quando aveva bisogno di dimenticare, decise di dedicarsi al lavoro.

Pur non essendo completamente lucido, provò a mettere in fila gli elementi che aveva in mano: l’ottomano innanzitutto, l’uomo accreditato di aver compiuto almeno due dei tre delitti su cui stava indagando.

C’era poi la spiata giunta a Palazzo la mattina precedente: la tabella, con la data dell’11 luglio, era un cifrario da decodificare. Probabilmente collegata a un minacciato pericolo per la Repubblica. In quell’ottica si inseriva anche il simbolo dei Malipiero, trovato su Sandei e che poteva rappresentare una chiave di lettura.

Mellan si alzò in piedi e andò alla finestra. Sotto di lui si apriva l’intera piazza, il simbolo di una città che ostentava fieramente il proprio fasto. Terminato il listòn, il rituale passeggio serale, c’era ancora un temerario venditore che, nonostante l’afosa estate, provava a rifilare vino caldo ai passanti.

Il Missier Grande spalancò i vetri. Inspirò l’aria umida che ancora sapeva della pioggia del pomeriggio e chiuse gli occhi, massaggiandosi la radice del naso. Ora si sentiva più lucido.

Provò a concentrarsi sulla lista di sospetti. Erano sempre gli stessi e, benché ciascuno nascondesse qualcosa, nessuno sembrava il vero colpevole. Il primo era Eliardo de Broglie, sorpreso a perquisire il corpo di Naso. Poi c’era Madame d’Aumale, che ereditava la casa di Venier. Infine, il turco, Murat Uçar: pur non potendo essere lui il levantino, visto che era piccolo e tarchiato, gli inquisitori lo tenevano d’occhio e il suo ruolo non era chiaro.

«Bognolini è sicuro: la daga rimasta incastrata nel costato di Quintavalle è la stessa che ha ucciso anche Sandei», gli aveva rivelato Van Axel, mentre erano sulla barca per raggiungere la Mısır Piramitleri. «Un colpo di fortuna averla ritrovata…».

A quelle parole faceva da contraltare la difesa di Uçar. «Se fossi davvero colpevole di qualcosa», aveva detto, «non crede che eviterei di lasciare una spada siffatta nel corpo di un uomo?».

In quelle due frasi c’era la sintesi perfetta del dubbio che lo attanagliava.

«Marcantonio Bognolini», ghignò d’un tratto il Missier Grande. Chiuse la finestra, indossò la toga e scese nella calle del Capelo.

 

 

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Dieci minuti più tardi i suoi tacchi rimbombavano nel silenzio del campo Santa Maria Formosa, rischiarato dalla luna velata di nuvole. Non v’era anima viva e uno stormo di piccioni turbinò nei pressi del campanile al suo passaggio.

Per raggiungere calle San Lorenzo, a mezza strada tra Rialto e l’Arsenale, la via più veloce era percorrere la riva degli Schiavoni e salire poi verso San Zaccaria. L’alternativa che lui aveva invece scelto passava dalle macerie, sopra piazza San Marco. Era più lunga ma gli aveva evitato di arrivare davanti a palazzo Ducale: a quell’ora non voleva certo che qualche malalingua lo vedesse passeggiare mezzo alticcio.

Superate le arcate cieche della chiesa, proseguì diritto e si infilò tra le finestre gotiche che incombevano su calle Longa. La percorse tutta nella luce bluastra della notte, con il mantello che disegnava ombre danzanti sui muri dall’intonaco scrostato.

«Aprite», urlò poco dopo, battendo i pugni sul grande portone sormontato da un bassorilievo della Vergine. «Dottor Bognolini, aprite».

Conosceva il chirurgo dell’ospedale dei Santi Pietro e Paolo solo di fama: un uomo tutto lavoro, casa e chiesa. Per quella ragione era ragionevolmente sicuro di trovarlo nel suo alloggio a quell’ora.

«Marcantonio, aprite!», insistette ancora. E non dovette attendere molto. Il cigolio di un chiavistello graffiò il silenzio della notte e il battente si spostò di una spanna.

«Sono il Missier Grande Mattio Mellan», si rivolse altisonante alla popolana in vestaglia di velluto che si ritrovò davanti. «Il dottor Bognolini è in casa?».

La donna, visibilmente sorpresa da quella visita notturna, si affrettò a togliere il fermo e a spalancare l’uscio. «Certo, eccellenza. Certo. Entrate pure…».

La corte era stretta e lunga, con le finestre del primo piano che si aprivano su tre lati. Al centro c’era una bella vera da pozzo e sui muri rampicanti di gelsomino fiorito. In fondo, rischiarato da una lampada che ardeva stanca nei pressi del portale d’acqua, si notava un sotopòrtego.

«Vostra grazia», esordì Bognolini proprio da quella parte. Non era abbigliato da notte, e indossava brache comode e una camicia con maniche larghe e pizzi. «A cosa devo la vostra visita?».

Mellan sorrise e si rallegrò che la poca luce non avrebbe reso palesi le sue guance rubiconde di Cordiale. «Ho bisogno di voi, dottore!».

«Se è così, prego, entriamo in casa».

«Ho bisogno della vostra consulenza sulla morte di quello speziale», incalzò Mellan, mentre si infilavano in un salottino alla buona, sorretto da travi basse e rischiarato da due candelabri.

«Se volete notizie sulla causa della morte, non credo di essere la persona più adatta…», rispose serio il padrone di casa. «Avete bisogno di un medico».

Bognolini si riferiva al fatto che l’Arte della medicina si distingueva in due Collegi: quella dei chirurghi e quella dei medici fisici; sebbene entrambi fossero considerati colonnelli alla pari, il chirurgo era quello che materialmente operava sui malati, mentre le diagnosi spettavano ai cosiddetti medici fisici.

A dire la verità, negli ultimi anni, la chirurgia era progredita meglio della medicina, grazie soprattutto allo studio dell’anatomia. Passi da gigante erano stati compiuti per merito di un’antiquissima et nobilissima consuetudine, quella di sperimentare sui cadaveri: fin dal XV secolo, infatti, il collegio dei medici ne chiedeva ai Signori della notte e con un incisore-cerusico li sezionava per comprendere il funzionamento degli organi. Al termine dell’operazione, si celebrava una messa per l’anima del defunto e si dava sepoltura alle membra ricomposte.

«Non volevo affatto una diagnosi…», precisò Mellan, schiarendosi la voce. «Volevo invece informazioni sulla daga, incastrata nel costato di Quintavalle».

Bognolini si accigliò. «Fatto davvero insolito, quello, a dire la verità».

«Perché? Non succede così spesso?»

«Direi proprio di no. Eccellenza». Bognolini si interruppe, cercando le parole più adatte per spiegare il concetto che voleva esprimere. «Per incastrare in quel modo una spada bisogna averla spinta a forza e girata nella ferita tra le ossa. Deve essere stato difficile per l’aggressore e doloroso per la vittima. Senza contare che richiede molta forza e intenzione di farlo».

«Lei esclude quindi che il fatto sia casuale?»

«L’assassino deve essersi impegnato parecchio per riuscirci».

Mellan si strinse nelle spalle. Bognolini aveva confermato i suoi sospetti: se aveva ragione, così si spiegavano anche i disegni delle piramidi sulla daga. Come aveva notato anche Van Axel, si trattava di decorazioni più superficiali e raffazzonate, che contrastavano con quelle pregiate del resto della lama. Qualcuno doveva averle realizzate in tutta fretta e lo scopo poteva essere solo uno: incastrare Murat Uçar.

La domanda era però un’altra: perché?