Capitolo 70

Terrazza di San Marco.

 

L’imponderabile. L’unico modo per anticipare le mosse di una donna che prevede il futuro più probabile era fare qualcosa di estremamente improbabile. Non v’era certezza che lei sarebbe effettivamente arrivata, ma anche quella era un’ipotesi che faceva parte del piano.

Come lasciarla senza parole quindi? Semplice, con qualcosa di assolutamente imprevedibile: Francesco Grimaldi appunto.

Sorridente, con un ghigno che gli sollevava il labbro, il barnabotto se ne stava immobile a braccia aperte. Le cascate di luce sul bacino di San Marco conferivano al suo viso un incarnato biancastro e le ombre nascondevano a tratti ciò che teneva nel palmo aperto: una gemma lucente delle dimensioni di una nocciola.

«Francesco, cosa ci fai tu qui?», immobile nel suo vestito color limone, con le scarpe tra le dita e le spalle alla quadriga di cavalli, Madame d’Aumale era come paralizzata.

«Ti aspettavo naturalmente!». Tese il braccio con la pietra, che baluginò al riflesso dei fuochi.

Annika la scrutò appena. Controllò il loggiato del palazzo Ducale e la piazza sottostante, gremita di fedeli e con fiumi di cibo che ammorbavano l’aria. Infine guardò schietta il viso lentigginoso del suo Francesco.

«Non capisco…», balbettò, dondolando sui piedi scalzi. Decine di pensieri affollarono la sua mente. «Ti hanno mandato loro… È una trappola!».

«Chi sono loro?», la sferzò Grimaldi, facendo un passo verso di lei. Zoppicava e la ferita al torace per il marchio a fuoco del turco gli doleva, ma fece di tutto per non mostrare la sua sofferenza. «Di chi parli, Annika?»

«Come hai avuto quella gemma?», insistette Madame d’Aumale, ancora senza capire. Si ricompose dall’iniziale sbandamento e tornò a sfoggiare il suo tono altero. «Come sapevi che sarei stata qui?»

«Domande dalla facile risposta, mia cara Annika!». Da dietro l’angolo della basilica scivolò fuori una voce strascicata. «Soprattutto per una donna piena di risorse come voi…».

Madame d’Aumale si voltò di scatto e vide un uomo sbucare dal cono d’ombra del colonnato. «Lo ha saputo da me, ovviamente», rispose Eliardo, camminando lentamente. «E la gemma gliel’ho data io… il giusto risarcimento per quello che Grimaldi ha passato a causa vostra, contessa».

«Cosa ci fate qui?», sibilò, ma fin da subito sentì odore di trappola.

«Che domanda: eravate stata voi a dire che i fuochi si vedono meglio dalla terrazza di San Marco». Con la mano Eliardo indicò il bacino scintillante oltre il parapetto. In quel momento, come una pioggia dorata, cascate rosse e verdi illuminavano la cupola della chiesa del Redentore. «Ci eravamo promessi che li avremmo visti insieme, se me la fossi cavata».

Se me la fossi cavata.

Di riflesso, Madame d’Aumale artigliò con gli occhi il braccio ferito di Eliardo. Non poteva vedere la fasciatura, naturalmente, perché l’alchimista indossava una vistosa velada di colore viola. Ma la pietra che Francesco teneva in mano…

«Perché avete mandato lui, allora?», indagò ancora, riferendosi proprio a Grimaldi. Ma ormai aveva capito. «Perché non siete venuto da solo?»

«Ma che domande: la risposta dovreste conoscerla da voi. Ci tengo alla pelle e visto che di solito mandate qualcuno ad accogliermi con un quadrello…».

La contessa si produsse in un fischio di ammirazione, uno di quelli che i gondolieri riservavano alle belle popolane. In bocca a una dama del suo lignaggio, suonò decisamente poco consono. «Touché».

Un nuovo fuoco artificiale rischiarò la testa imparruccata di Eliardo. Adesso stava sorridendo. «Scherzi a parte, dovevo essere sicuro che sareste venuta di persona».

«Ma perché avete mandato proprio lui ad accogliermi?»

«Con tutto il rispetto, era il giusto amo», chiosò, accennando a un inchino verso il barnabotto. «Era l’assicurazione che se foste arrivata di persona, vi sareste domandata come mai fosse qui, e in effetti è andata proprio così. Francesco era la garanzia che vi sareste fermata il tempo sufficiente…».

Grimaldi fece un altro passo verso Annika, infilando la gemma nel panciotto.

«In una parola sola, Francesco era l’imponderabile». Eliardo si schiarì la voce. «Imponderabile. È così che lo chiamate, giusto?».

Quella semplice parola dette ad Annika la certezza che anche Eliardo aveva capito. Ed era così. Subito dopo l’arresto a Oriago, poco dopo aver ritrovato la pietra, l’alchimista era stato sottoposto a un duro interrogatorio. Van Axel e Mellan erano preoccupati per qualcosa e gli avevano fatto decine di domande. Che ruolo aveva lui? Cosa voleva fare la contessa? Come funzionava il marchingegno? Come, soprattutto, lei era in grado di prevedere il futuro? Eliardo non conosceva le risposte e loro non erano stati chiari sulle ragioni di quegli interrogativi. Una frase, però, che il Missier Grande aveva cantilenato più volte, lo aveva scosso più delle altre.

«O è in grado di prevedere il futuro… oppure è andata proprio come dite voi». Non erano state parole partorite dai due birri, ma loro si erano semplicemente limitati a ricordargliele. Le aveva pronunciate proprio lui, nell’interrogatorio di qualche giorno prima, dopo il suo primo arresto. Davanti agli inquisitori, che lo accusavano di aver ucciso sir Venier, Eliardo aveva provato a scaricare la responsabilità sulla contessa: aveva affermato che lei sapeva che il nobile sarebbe morto.

Lo sapeva. Ecco il punto. Sapeva che Venier sarebbe precipitato dal suo palazzo e le avrebbe lasciato tutto in eredità; sapeva che dopo Murano lui sarebbe fuggito da Rudolf, che sarebbe passato attraverso il rio de San Barnaba e poi sarebbe arrivato davanti alla mendicante. Per scappare aveva contato fino a centodue, non fino a novantanove e non fino a centocinque. Era stato il tempo perfetto per evitare i turchi. Centodue: un tempo non casuale, che nessuno avrebbe potuto immaginare senza sapere

Ecco spiegati gli ultimi avvenimenti. Non era in grado di stabilire come, ma dalle parole di Van Axel e Mellan era emersa una verità che già albergava in lui. Una verità che si scontrava con la moltitudine di uomini che aveva veduto alla Giudecca e con decine di piccoli indizi e sensazioni che già possedeva. In qualche modo, con l’aiuto di una qualche stregoneria forse, Annika era in grado di prevedere il futuro.

Aveva così rivelato a Van Axel e Mellan le informazioni in suo possesso. Dalle sue parole era scaturita prima la riunione tra il doge e Murat Uçar e poi la liberazione di Grimaldi: l’amo imponderabile. Infine era arrivato quell’incontro romantico al cospetto dello spettacolo pirotecnico.

 

 

Simbololeone.png 

 

«Francesco era la garanzia che ti saresti fermata il tempo sufficiente…». Le parole di Eliardo, pronunciate poco prima, adesso avevano un significato fin troppo chiaro. La contessa si irrigidì. «Ti sei preso gioco di me», ringhiò. Si voltò in circolo, scrutando tra i riflessi fiammeggianti dei fuochi. «È una trappola!».

«Mi dispiace», confermò Eliardo, muovendo appena le labbra. Alle sue spalle, da dietro il gruppo scultoreo, comparvero alcuni fanti della Quarantìa e la figura ammantellata di Mellan, che galleggiava nel buio. Van Axel spalancò invece la porta che dava accesso all’Ardica e avanzò brandendo una lanterna e una pistola. «La tua cattura è il prezzo per la mia libertà. Sono stato costretto a venderti».

La contessa, accerchiata, rimase paralizzata. Fece balenare le iridi da Francesco a Eliardo, da Mellan a Van Axel, in un balletto di cui non riusciva a vedere un epilogo facile. Davanti a lei i birri erano quattro, ma forse ce n’era qualcuno alle sue spalle, a presidiare la porticina da cui era arrivata.

«Se non ti avessi consegnato, avrebbero incolpato me di tutto…».

Annika sospirò, e alla luce rossa di un nuovo lampo pirotecnico, indugiò per alcuni istanti sul panciotto in cui Francesco aveva fatto scomparire la pietra lucente. Tornò a guardare Eliardo e poi si mosse così velocemente che i birri non riuscirono a impedirglielo. Abbracciò il suo Francesco e riuscì a sussurrargli all’orecchio un laconico: «Scusa». Subito dopo, saltellò e raggiunse l’alchimista.

Nel frattempo, la porticina dietro di lei si spalancò violentemente, lasciando cadere l’uno sull’altro due birri. Dietro di loro comparve Rudolf, con il quadrello insanguinato.

Annika si avvicinò a Eliardo, si mise sulle punte e gli regalò un fugace bacio sulle labbra. Subito dopo, protetta dal suo gigante che si frappose tra lei e gli altri birri, guadagnò la porta e si catapultò giù per la scaletta a chiocciola.