Capitolo 55

Rio de San Barnaba, sestiere Dorsoduro. Venerdì 17 luglio 1761.

Dopo il tramonto.

 

Lambendo le fondamenta lucenti alla luce della luna, la gondola scivolò silenziosa sull’acqua plumbea.

«Siete un uomo fortunato, messer de Broglie». Cesare Trevisan, in ginocchio sui talloni, torreggiava su di lui. Gli porse un drappo di stoffa per asciugarsi il viso.

Eliardo, sdraiato sotto il felze, fradicio e dolorante, non mosse un muscolo. Si sforzò di rimanere impassibile, scrutando oltre la rassa dell’imbarcazione. Stavano attraversando il sestiere di Dorsoduro, con i suoi palazzi fatiscenti che mescolavano stili diversi. In fondo, oltre i tetti, si stagliava la cella campanaria dominata dalla trifora della chiesa di San Barnaba.

«Ancora voi?», riuscì a borbottare, tornando a fissare Trevisan. Il suo viso tondeggiante, la parrucca incipriata, lo sbuffo di pizzi dorati che sbucava dal giustacuore damascato, erano gli stessi apparsi a singhiozzo durante le sue febbri.

«Non è un buon modo per ringraziare chi vi ha salvato la vita». La spia si mordicchiò le labbra. Lo spiegamento di uomini delle dogane, che era stato costretto a mettere in campo in tutta fretta, avrebbe inevitabilmente attirato sospetti su di lui. D’altra parte, senza i suoi uomini, adesso non si sarebbe trovato lì, a un passo dalla gemma. «Se non ci fossimo stati noi quel gigante vi avrebbe sgozzato… o peggio sareste affogato».

«Mi stavate seguendo? È per questo che mi avete ripescato?»

«Non siate presuntuoso, messer Eliardo». Trevisan espirò con atteggiamento istrionico, come se gli dispiacesse sottolineare l’ovvio. «A Murano ci avete stupito, questo sì: non credevamo vi sareste riavuto così in fretta e per questo avete evitato le nostre perquisizioni a tappeto. Dopo il vostro provvidenziale trasbordo, dovevamo però essere sicuri che non aveste ciò che cerchiamo».

Eliardo scosse il capo e adocchiò il campo affollato di barnabotti, che si approssimava veloce oltre lo scafo della gondola. Ormeggiati alle briccole, tra loro e le fondamenta, c’erano una schiera di barche e barchini già coperti per la notte. «Voi e i vostri birri vi siete dati tanto disturbo per nulla: non ho io l’Omphalos!».

Trevisan lo esaminò in volto, inespressivo. «Ci siamo presi la libertà di controllare, e quindi questo lo sappiamo… Per appurarlo è stato necessario spingere alla fuga il vostro amico col coltello, però».

«Cosa farete quindi, mi ributterete in pasto a quella gentaglia?», insistette ancora Eliardo, provando a mettersi seduto. La ferita all’addome era superficiale, ma quella al braccio pulsava e gli provocava dolori lancinanti. Si era riaperta, o più probabilmente l’aveva riaperta Rudolf con il quadrello. In tutta quella situazione c’era qualcosa di profondamente sbagliato. Perché il servitore di Madame d’Aumale l’aveva aggredito, solo poche ore dopo avergli medicato la ferita da arma da fuoco? Cosa era successo nel tempo in cui lui era rimasto incosciente?

«Per adesso potete stare tranquillo, messer, non abbiamo cattive intenzioni», scherzò enigmatico Trevisan. «Soprattutto perché siete un uomo con grandi potenzialità». La luce di uno dei lampioni, che da qualche tempo illuminavano anche quella zona, gli danzò sul viso pacioso. A dispetto della replica tutt’altro che chiarificatrice, quella stessa luce fornì però a Eliardo la risposta a una domanda che non aveva neppure posto: “Cosa doveva fare?”.

Si rizzò su un gomito, mentre una stilla di sudore gli attraversava la fronte. Poco distante dal ponte sotto il quale stavano passando, individuò una figura nota. Era abbigliata come una mendicante, seduta per terra con le gambe incrociate e le mani abbandonate in grembo. Ma sembrava lei… e soprattutto sussurrava qualcosa, muovendo lentamente le labbra: “Eliardo…”.

Trevisan notò che l’alchimista si era distratto, e si voltò a sua volta, fissando anche lui la donna per un istante. Non aveva idea di chi fosse.

L’alchimista deglutì, cercando di leggere con distacco la situazione in cui si trovava.

Fece balenare lo sguardo tra il sorriso sdentato della mendicante e la gondola che l’aveva ripescato. Quegli uomini erano gli stessi che avevano perquisito l’alloggio di Murano. Sapevano che non aveva lui l’Omphalos: doveva quindi temerli in qualche modo? Avrebbero provato a usarlo come merce di scambio, con gli inquisitori o con Madame d’Aumale?

“Eliardo, scappa!”, stava mimando intanto la donna.

Quella era la giornata delle decisioni non ponderate. Ma d’altra parte, si disse, che alternative aveva? Rizzò la schiena, diede fondo alle sue ultime forze e si alzò in equilibrio sulla gondola.

«Cosa fate?», l’apostrofò Trevisan, provando ad afferrarlo per la coda della velada fradicia d’acqua.

Ma non ci riuscì. Erano talmente vicini alle fondamenta che l’alchimista dovette semplicemente allungare il passo per saltare giù dall’imbarcazione. Senza guardarsi indietro cominciò a correre.

«Fermatevi», udì dietro di lui, prima di infilarsi in un budello su cui incombevano le ombre della notte. In fondo si vedeva un bàcaro dall’aspetto equivoco, sulle cui facciate incrostate d’umidità danzavano due lanterne. Proseguì oltre, superando un oste alle prese con una botte, e subito dopo svoltò a sinistra, come per tornare verso campo San Barnaba.

Dietro di lui ora cominciava a sentire distintamente il ticchettio dei tacchi sui masegni.

«Prendetelo», ordinò qualcuno.

Non sapeva cosa volessero quegli uomini, ma l’istinto gli diceva che non era nulla di buono.

Corse all’impazzata per diversi secondi, con i polmoni che gli bruciavano nel petto. Voltò ancora in una calletta poco più larga delle sue spalle e alla fine sbucò in un sotopòrtego. E la mendicante era lì, in piedi, ad attenderlo.

«Prefsto, entrate, Eliardo!», esclamò, con una specie di sibilo nella voce.

«Ma voi…», riuscì a dire lui. Da vicino ora era sicuro fosse lei: capelli bianchi raccolti in una crocchia di trecce, viso cadente, iridi blu incastonate sotto la fronte grinzosa. Tra i denti incisivi si apriva una finestra che non passava inosservata: la ragione per la quale ogni sua parola assomigliava a un fischio. Era la domestica di Madame d’Aumale, quella che l’aveva accolto nel palazzetto della Giudecca solo un giorno prima.

«Prefsto», ripeté la donna, spostandosi di un passo. Spalancò un portone di legno che dava accesso a un corridoio buio come un pozzo. «Dentro troverete abiti asciutti. Profseguite e troverete un’altra porta. Contate fino a centodue, poi uscite sul campo e andate a defstra».

Centodue? Eliardo, stremato per la febbre e per la fatica, rimase interdetto. Si voltò e udì le armi dei fanti tintinnare tra le calli. Poi ripensò a Rudolf: anche lui era un servitore di Madame d’Aumale… era sensato mettersi ancora tra le mani di quella donna?

«Prefsto o vi troveranno», sussurrò ancora lei, con un ultimo afflato.

Non si fece pregare. Pur non essendo troppo convinto, si infilò oltre la soglia e vide richiudersi la porta alle sue spalle.