Capitolo 54

Taras, Magna Grecia, 364 a.C.

2125 anni prima… Tre anni prima del viaggio di Archita a Delphi…

 

Erano passati venticinque anni da quando il centesimo discepolo aveva messo piede nella villa sul mare di Archita. In quel quarto di secolo, il teorema che il pitagorico aveva sviluppato era diventato il punto più alto mai raggiunto dalla mente umana: un concentrato di statistica, calcoli matematici e di probabilità. Di incroci tra ciò che ciascuno vuole e i desideri degli altri. Di forza che ciascuno è in grado di imporre e di debolezza degli altri.

Dai suoi pensieri filosofici sul domani, sul senso della vita, sull’imponderabilità del fato, l’ormai anziano filosofo aveva compreso una cosa: non era possibile prevedere il futuro, almeno fino a che riguardava eventi imponderabili e troppo lontani nel tempo. Per gli accadimenti più prossimi però le cose erano ben diverse. Per eventi vicini, basandosi su informazioni e complessi calcoli probabilistici, si era convinto fosse possibile immaginare gli accadimenti futuri. In anni di tentativi e di dimostrazioni, aveva così elaborato i suoi ventitré postulati e li aveva messi a fondamento di un teorema. Incrociando le attitudini dei soggetti coinvolti, era così riuscito a ottenere previsioni accurate sulle scelte più probabili di ciascuno.

Il lavoro si componeva di due fasi: raccogliere le informazioni ed elaborarle secondo i complessi calcoli da lui teorizzati. Il limite del suo ragionamento era però il grande numero di variabili – che cresceva esponenzialmente a ogni ipotesi alternativa di futuro – e il limitato numero di calcoli che poteva compiere un solo uomo. Poiché il fulcro della teoria era proprio analizzare tutte le variabili simultaneamente, o in tempi ristretti, la soluzione possibile era solamente una: far lavorare più matematici contemporaneamente. Da lì, l’idea di sguinzagliare i suoi uomini migliori per arruolare persone che potessero aiutarlo. Nel corso dei lustri, aveva così concentrato nel palazzo di Taras la miglior selezione di menti brillanti dell’epoca. Alcuni erano schiavi, altri liberi pensatori. Alcuni cercavano un lavoro, altri semplicemente credevano in lui.

Nel momento in cui aveva avuto più discepoli, in quelle stanze si erano avvicendati centocinquanta matematici contemporaneamente, in grado di risolvere 270.000 formule ogni ora, 6.480.000 in un giorno. Quasi duecento milioni di calcoli, che venivano elaborati in un solo mese.

Più erano le informazioni, più le variabili, ma più era accurata la probabilità di cosa poteva accadere.

Grazie all’applicazione del suo teorema era così riuscito a superare i suoi avversari politici e gli eserciti avversi. Aveva previsto prima le loro reazioni alle sue ipotetiche scelte e si era mosso nella direzione in cui loro erano più deboli e lui più forte. Per prevedere le probabilità delle conseguenze delle sue mosse, aveva esaminato in anticipo tutte le ricadute. Da quel metodo erano emersi i cardini della sua teoria: se da una parte la matematica era una scienza esatta, con le giuste formule anche l’animo umano diventava facilmente pronosticabile; a patto di conoscere e interpretare quindi tutte le variabili, il futuro non era un fumoso vaticinio, bensì una chiara sintesi di azioni, reazioni probabili e risultati certi.

 

 

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«Maestro!». Timeo di Mnesagete corse sotto il grande porticato per raggiungere Archita, seduto a contemplare il mare mattutino. «Ce l’abbiamo fatta. Platone è stato liberato!». Gli porse un rotolo di papiro e rimase in piedi, fino a che l’anziano pitagorico non lo afferrò.

Archita indugiò, carezzando la folta barba bianca, ma alla fine desistette e con le mani grinzose lo prese. Lo aprì e cominciò a leggere. Il documento diceva esattamente quanto si aspettava, quanto le sue previsioni avevano stimato come epilogo più probabile della vicenda: il suo grande amico Platone, in pericolo di essere messo a morte per un alterco con Dionisio II, alla fine era stato liberato e messo su una nave per la Grecia.

Quella vicenda rappresentava il culmine della sua attività politica, che per la prima volta aveva visto un uomo solo eletto per ben sette volte a Stratego di Taras. E la vicenda che aveva visto Platone accusare Dionisio di Siracusa di tirannide era stata condotta applicando proprio i ventitré postulati che avevano segnato la sua carriera.

Assieme al suo gruppo di discepoli aveva elaborato le singole ipotesi più plausibili e poi ne aveva stimato i pesi e le influenze. I suoi calcoli avevano dimostrato inequivocabilmente che essendo lui a capo degli italioti, il più saldo baluardo della grecità in Occidente, Dionisio avrebbe ritenuto fosse utile farselo amico. E così era stato, per non ostacolarlo o addirittura essere sopraffatto, il tiranno aveva assecondato la sua richiesta di liberare Platone.

«Maestro, sarai ricordato per questa vittoria», si complimentò ancora Timeo. «E Platone non potrà che esserti riconoscente».

Ma Archita non sembrava affatto soddisfatto. Era abituato a ottenere i suoi risultati politici in quel modo. Più passavano gli anni, però, più si convinceva che il suo teorema, in mani sbagliate, poteva diventare un’arma troppo pericolosa.

«Mi domando se tutto quello che abbiamo fatto sia giusto», si limitò a dire, setacciando le iridi nere del discepolo. «Posso, io solo, decidere delle sorti di una moltitudine di persone?»

«Cosa intendi dire, maestro?». Timeo, ormai sulla soglia dei cinquant’anni, assunse un’espressione corrucciata. «Ti stai riferendo al teorema?»

«È da tempo che ci vado riflettendo, caro Timeo». Archita fece un sospiro profondo, come se faticasse a esternare le sue perplessità. «Applicando il teorema abbiamo cercato di fare del bene…».

«Maestro, tu hai fatto del bene». Il matematico, il centesimo che Archita aveva fatto entrare nella sua casa, indicò la città, che si inerpicava a occidente. Taras, anche grazie a lui, era diventato uno stato prospero, forte e bene armato, che poteva trattare alla pari con chiunque, nella Magna Grecia. «Chiedilo ai tuoi cittadini… ai tuoi servi… a tutti noi!».

Il politico alzò una mano, come per fermare il profluvio di riflessioni del suo allievo. «Cosa accadrebbe se i rotoli cadessero nelle mani di un tiranno? Uno come Dionisio, ad esempio?»

«Perché mai dovrebbe accadere?». Il volto di Timeo si fece improvvisamente scuro. Una ruga verticale si dipinse sulla sua fronte olivacea.

«Perché io sono vecchio, mio caro amico». Il pitagorico si alzò dalla sedia e fece qualche passo. Raggiunse il parapetto che dava accesso alla spiaggia, sotto la rupe sulla quale era appollaiata la villa. «Mi fido di te e dei tuoi colleghi. Ma quale sarà la sorte dei papiri in cui abbiamo trascritto il teorema? Per Apollo, chi ci garantisce che saranno usati per il bene della Grecia? Dei posteri tutti?»

«Noi siamo i tuoi discepoli», allargò le braccia Timeo. Si voltò incerto verso la biblioteca, in cui erano racchiusi gli oltre cento rotoli di papiro, sui quali, negli anni, il maestro aveva trascritto i suoi postulati. «Ci hai insegnato a distaccarci dal pensiero mistico e a vedere le cose come sono, attraverso l’esperienza. Noi, nel lontano giorno in cui tu non ci sarai più, potremo fare lo stesso con i nostri discepoli».

Cieco e sordo al mondo, l’anziano pitagorico si lasciò andare a un sorriso che gli arricciò le labbra. Aveva dedicato una vita a mettere a punto i calcoli matematici senza pensare che, prima o poi, l’imponderabilità della morte sarebbe toccata anche a lui. Non era certo una riflessione nuova la sua, quello no, ma in quasi trent’anni di attività semplicemente non aveva trovato la persona giusta. Non c’era nessuno a cui avrebbe potuto lasciare il testimone. Certamente non Timeo di Mnesagete: intelligente, arguto e con visione sul futuro. Privo però di sensibilità umana.

«Non è una decisione che posso prendere da solo», sentenziò alla fine.

Timeo, pur non capendo cosa intendesse il maestro, non lo interruppe.

«Ho bisogno del parere di un saggio. È la mia coscienza che me lo impone. Devo scegliere cosa è giusto e cosa no». Lo fissò, commosso. «È deciso: con la bella stagione andrò a Delphi, per interrogare la pizia».

«Interrogare la pizia, maestro? Proprio tu?». Timeo era incredulo: un uomo ancorato alla realtà come Archita, che voleva interrogare una veggente? «E su cosa vorresti interrogarla?»

«Voglio sapere quale sorte riservare al mio teorema».

 

 

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L’estate successiva, problemi politici e acciacchi fisici costrinsero Archita a rimanere a Taras, e pure la seguente ebbe la stessa sorte. Riuscì a muovere verso Corinto solo tre anni più tardi. Alla fine di un lungo viaggio per mare e per terra, l’incontro con la pizia non fu però come se lo sarebbe atteso.

«Se conosci te stesso, sai ciò che devi fare», gli profetizzò la sacerdotessa, tra i vapori biancastri dell’adyton. «Se non lo farai, i sacrifici ricadranno su di te». La veggente si era fermata, gli occhi pulsanti come in preda a una crudeltà repressa. «Distruggi l’arma, che tanti danni recherà agli uomini e alle greggi», aveva poi sentenziato. «Per Apollo, devi farlo».