Capitolo 13
Piazza San Marco, domenica 12 luglio 1761.
All’imbrunire.
Sotto un cielo ammantato da pennellate rosse, il capitano Van Axel uscì dagli uffici del Palazzo e si diresse verso il Florian.
A quell’ora, piazza San Marco era talmente ingombra di gente che si faticava a camminare. I braceri dei venditori ambulanti di frìtole erano un po’ ovunque e facevano brillare le vetrine delle botteghe. Nella luce rossa del tramonto si stagliavano capannelli di nobili e dame, patrizi e plebei mescolati come solo a Venezia poteva accadere. La maggior parte delle persone nascondeva il volto dietro a maschere, ma tutt’intorno c’era un andirivieni perpetuo di prostitute con i loro clienti alticci.
Van Axel si infilò prima sotto una tenda da sole e poi sotto i portici delle Procuratie per evitare la folla. Benché in molti gli suggerissero un abbigliamento più confacente al suo ruolo, anche in quel frangente era privo di parrucca e indossava un semplice tabarro. Vestiario bizzarro, se si considerava che quella era l’ora del listòn, il rituale passeggio serale tra le luci del tramonto e quelle dei lampioni. Si trattava di un’ostentazione inutile di eleganza, di oro, abiti ricercati, calze di seta e parrucche. Un camminare per essere visti. La rappresentazione perfetta di una città in irreversibile declino: Venezia infatti era reduce da una lunga crisi economica, e secondo i più era ormai al tramonto, dominata com’era dalla corruzione e dal vizio. Una Repubblica che rifiutava di accettare che tutt’intorno, in Europa, il mondo stava cambiando. E per questo, sarebbe stata travolta dal quello stesso cambiamento.
Anche il Florian, il locale più famoso dove mettersi in mostra e dove Van Axel era diretto, non era da meno quanto a esibizionismo. Rumoroso e gremito fino alla porta, le sue salette, affacciate su piazza San Marco, erano illuminate, traboccanti di specchi e accoglievano gli avventori più vari: poeti, musicisti, pittori, ma anche nobildonne, uomini di Stato, meretrici e perfino qualche religioso.
Uno dei clienti di quella sera, seduto amabilmente tra due dame discinte, si chiamava Marcello Lin. Il capitano non lo conosceva di persona, ma attraverso il simbolo intagliato sulla gondola trovata in calle Longa, aveva rintracciato la sua famiglia. Si trattava di un’antica casata, ricchissima e quindi molto influente, e aveva pertanto ipotizzato che il povero Naso li avesse derubati dell’imbarcazione. Mandando i suoi uomini ad avvisare i Lin, aveva però scoperto che il figlio minore, Marcello, l’aveva invece persa al gioco la sera prima, proprio contro Sandei. Non volendo convocare il nobile a Palazzo come semplice testimone, aveva quindi proposto un incontro informale davanti a un bicchiere di liquore.
Entrando dalla porta principale, il consueto afrore di alcool gli salì fino alle narici. Non era contento di essere lì, ma la richiesta che gli aveva fatto Mellan era molto chiara.
«Rintracciate il proprietario della gondola in calle Longa e cercate di ricostruire gli ultimi spostamenti di Zuanne Sandei», gli aveva suggerito il suo mentore. La prima delle due richieste era stata semplice da esaudire; la seconda necessitava invece di uno sforzo maggiore… ed entrare al Florian non era che l’inizio. Ma lo faceva con piacere: doveva tutto al Missier Grande, a cominciare dal suo ruolo come capitano degli zaffi. Quel grado, infatti, sarebbe dovuto toccare a un predestinato di San Nicolò, e non a un nobile di nascita come lui; Lodovico, però, rampollo di un’antica casata di origine fiamminga, era la persona giusta: era un illuminista, esattamente come Mellan, e proprio come lui condivideva ideali di libertà e giustizia. Quando si erano conosciuti, a dispetto della differenza di età avevano subito legato, tanto che era diventato come un nipote per il capo del satellizio. Appena era giunto il momento di scegliere il capitano degli zaffi, era parso quindi naturale proporre il suo nome. Da barba, da zio, il Missier Grande era così diventato anche suo comandante.
«Capitano Van Axel». Una voce squillante sovrastò il chiacchiericcio ricco di gridolini e risate del Florian.
Il capitano cercò con lo sguardo da dove provenisse e notò un nobile imparruccato e sorridente, seduto in mezzo a due donne mascherate. Agitava il bastone da passeggio.
«Mi avevano detto che eravate una persona stravagante», gli comunicò, facendosi largo tra gli avventori rumorosi. «Quando siete entrato così… abbigliato ho supposto quindi che foste voi».
«E avete supposto bene, messer Lin», ribatté con spirito Van Axel. Si tolse il tricorno e se lo mise in grembo.
«Mi hanno riferito che voi birri avete ritrovato la mia gondola».
«È così infatti».
«Molto bene. Prendete qualcosa?», ridacchiò il nobile, portando alle labbra un bicchiere di liquore. Era un ragazzo con il viso magro e i bulbi oculari scavati. Elegantissimo in un giustacuore abbinato a un ricco jabot con pizzi dorati alle maniche, non sembrava tuttavia troppo a suo agio. «Una cioccolata alla menta? Un bicchiere di vino? Ratafià?»
«Quello che avete preso voi».
«Benissimo». Lin si rivolse alle due cortigiane con una smorfia beffarda. «Ragazze, portate al mio amico un bel bicchiere di ratafià».
Appena si furono allontanate tornò subito serio. «Dicevamo, quindi, che avete ritrovato una delle gondole di mio padre».
«Era abbandonata in calle Longa».
Lin si portò le mani alle labbra, fingendosi stupito. «Considerata la zona, è un miracolo che sia tutta intera, allora».
«Mi è stato riferito che non vi era stata rubata, bensì che l’avete perduta al gioco, al Casin degli Spiriti».
«Vi hanno bene informato: è stata una serataccia; se quell’avventuriero da quattro soldi non se ne fosse andato all’improvviso, mi avrebbe portato via anche la parrucca».
«Sta parlando di Zuanne Sandei?»
«Non conosco il suo nome… ma il suo naso sbucava da sotto la bauta come la coda di un gatto». Sorrise alla sua stessa battuta e si avvicinò a Van Axel. «Alla fine possiamo però dire che ho limitato le perdite: è venuto fuori che quel tizio doveva urgentemente raggiungere Dorsoduro e aveva bisogno di una gondola. Così mi ha proposto l’abbuono della perdita in cambio della barca di mio padre».
«E voi avete accettato».
«Voi cosa avreste fatto?».
Van Axel annuì, lasciando che il tintinnare di stoviglie e le voci delle dame rispondessero al suo posto. «Che ora era quando Sandei se n’è andato con la vostra gondola?»
«Poco dopo il suonare dell’Ave Maria. Il sole era appena tramontato».
«Ed eravate solo voi, al tavolo da gioco? C’erano altri giocatori?». Van Axel fece una pausa, ripensando alle parole della mendicante che aveva trovato il corpo di Naso. «Qualcuno con una maschera rosa?»
«Uno speziale di campo San Giacomo… al tavolo c’era anche lui e indossava proprio la moretta insolita a cui vi riferite».
Le due amiche che accompagnavano Lin tornarono con un bicchiere, che sistemarono di fronte a Lodovico. La più giovane delle due, un neo posticcio sotto la maschera e seni enormi, gli si avvicinò con una smorfia.
«Sapete il suo nome? Dello speziale mascherato, intendo».
A quella domanda Lin si irrigidì, fissando nel vuoto. «Ragazze, aspettatemi al bancone», suggerì. «I grandi stanno parlando d’affari».
Imbronciate, le due donne si allontanarono, sovrastate dai brusii del Florian. La mora si voltò verso Van Axel e poi scomparve dietro a un’elaborata specchiera.
«È uno di quelli lì, lo speziale», disse alla fine, la voce improvvisamente acuta.
Van Axel si acciglio. «Quelli lì?»
«Quelli lì. Non so se mi spiego».
«È forse un libertino? O intendete un reciòn, un sodomita?». Anche se proibita e punita con il rogo post mortem, la sodomia era una pratica dilagante, sia nelle case d’appuntamenti che nei ridotti. Malgrado leggi vecchie di tre secoli, la Serenissima non si era mai accanita con troppa convinzione con chi la praticava, soprattutto se si trattava di patrizi.
«Sodomita. L’avete detto voi!». Lin alzò le mani in segno di resa, ma con uno strano ghigno tra le labbra. «Comunque, anche lo speziale stava perdendo forte, tanto che appena ha trovato compagnia si è alzato dal tavolo e si è appartato con un ragazzino…».
«Date le circostanze, il suo nome vi sarà ignoto».
«Naturalmente, capitano: chi va al Casin degli Spiriti lo fa per rimanere anonimo… È divertente, sapete, non conoscere chi si ha di fronte: il nobile con il plebeo, l’uomo con l’uomo, la donna con la donna». Il patrizio si fermò, per saggiare l’effetto delle sue parole sul viso del capitano, che tuttavia era rimasto impassibile. «Dopotutto siamo a Venezia».
«Naturalmente. Dopotutto siamo a Venezia». Quello era un altro degli aspetti che Lodovico odiava della sua città. La dissolutezza era talmente diffusa che chiunque da dietro una maschera si sentiva autorizzato a sperimentare ogni sorta di vizio. Per un istante, ebbe il sentore che anche Lin, pur circondandosi di avvenenti cortigiane, stesse tentando un qualche tipo di approccio proprio con lui…
«Va bene, la ringrazio per l’ospitalità. Se doveste rammentare qualcosa, vi prego di farmelo sapere». Si alzò in piedi per congedarsi e si infilò il tricorno sul capo. «Un’ultima cosa: sapete almeno perché Sandei è dovuto andar via anche se stava vincendo?»
«Questo lo ignoro, capitano… Prima di imboccare la porta, però ha mormorato di un certo Grimaldi e di una bettola: la Furàtola del vin».