Capitolo 25
Palazzo Malipiero, sestiere San Marco. Due ore dopo.
Tarda mattina.
L’effige, scolpita nello scudo di pietra, sormontava l’elaborato arco gotico del portone.
«La zampa è identica al disegno trovato sul corpo di Sandei», osservò il capitano Van Axel, con la mano sulla fronte per ripararsi dal sole. Si trovava, in compagnia di Mattio Mellan, su campo San Samuele, con il Canal Grande pullulante di imbarcazioni a destra e la chiesa a sinistra.
L’austero palazzo bizantino, come la maggior parte degli edifici nobiliari, aveva due ingressi: il portale d’acqua, davanti al quale avevano attraccato la bissona, e quello di terra. Il Missier Grande e il capitano avevano scelto di entrare da quest’ultima, in compagnia di tre armigeri, proprio per poter studiare lo stemma scolpito sull’arco.
«È identica se non si considerano gli artigli e la coda», lo corresse Mellan. Eccezione fatta per quei due dettagli, l’arma dei Malipiero, sorretta da un angelo alato, era sorprendentemente simile a quella disegnata da Grimaldi: stesso numero di penne, quattordici, e stesse proporzioni. La domanda però restava: cosa significavano invece i simboli sotto il disegno di Sandei e che mancavano nell’effige dei Malipiero?
«La siora vi attende», annunciò il maestro di casa, facendo cigolare il pesante chiavistello. Era un uomo impettito con parrucca, marsina scura e l’aspetto di un corvo. Non sorrise e si limitò a fissare i fanti.
Attraverso un ampio scalone, la delegazione fu accompagnata prima in un luminoso pòrtego del piano nobile e subito dopo in un locale attiguo. Era un po’ più piccolo del precedente, ma il pavimento lucente e il camino sovrastato da un bassorilievo con il leone di San Marco gli conferivano un grande sfarzo. Furono fatti accomodare su un bel salotto laccato, rivolto verso la polifora che si affacciava sul canale.
«Buongiorno, eccellenza», li salutò la padrona di casa, una gran signora non più giovane ma dal fine portamento. In piedi con le braccia protese in avanti come si conveniva in rispetto degli ospiti, era inappuntabile: il belletto sul viso contornato da nei di stoffa, la parrucca incipriata e un abito sulle tinte del verde, alla moda parigina. «Perdonate il disordine ma ci stiamo preparando per il ricevimento in occasione del mio sessantesimo compleanno, giovedì. In ogni caso è un piacere potervi conoscere di persona».
«Il piacere è nostro, signora Malipiero», esordì Mellan, che in effetti, entrando, aveva notato alcuni domestici alle prese con l’argenteria.
«Se anzi mi vorrete rendere omaggio con la vostra partecipazione alla festa, sarà per me un grande onore». Annuì più volte. «Vi devo anche ringraziare per aver comunicato il vostro arrivo con anticipo».
«Un atto di cortesia», ribatté Mellan, che prima di muoversi dal palazzo Ducale aveva scritto una lettera ai Malipiero. Insieme alle poche righe che annunciavano il suo imminente arrivo, aveva allegato una riproduzione disegnata da Padoan del simbolo trovato sul corpo di Sandei.
«Gradite qualcosa da bere?». Non attese la risposta e fece cenno di accomodarsi su un divanetto foderato di seta verde. «Se ho ben compreso il senso della vostra visita», ipotizzò subito dopo con calma, «vorreste avere una nostra opinione sui caratteri sottostanti, ammesso che si tratti davvero di “caratteri”». Il disegno era sul tavolino laccato e la donna si limitò a indicarli.
«Non sappiamo il loro significato», ammise Mellan, «tuttavia, poiché sono raffigurati assieme a uno stemma somigliante al vostro, speravamo potesse aiutarci».
La donna socchiuse le labbra, in atteggiamento meditabondo. Poi scosse il capo, ammirando le figure mitologiche sul soffitto, che contornavano anche i dipinti alle pareti. «A essere sincera, non saprei proprio come aiutarvi; è vero, il mezzo volo somiglia al nostro, ma credo non si sia mai vista l’ala di un’aquila con la coda».
«In effetti ha ragione. È una delle differenze che avevamo riscontrato anche noi».
«È come pensate, dunque, che io possa esservi utile, eccellenza?»
«All’Avogadoria ipotizzavano che forse i simboli sottostanti, quelli per i quali siamo venuti a importunarvi, potrebbero esservi familiari in qualche modo», suggerì Van Axel, con un pizzico di insolenza nella voce. «Potrebbero esserci delle corrispondenze nel palazzo. Magari in qualche quadro, o in qualche stucco. Oppure nelle decorazioni di credenze o mobili».
Matilde Malipiero scosse la testa. «Prima del vostro arrivo mi sono confrontata con il maestro di casa, ma anche lui non ha saputo essermi d’aiuto». Apparentemente dispiaciuta la signora si coprì la bocca con il palmo per mascherare uno sbadiglio. «Temo purtroppo di non riconoscere nulla di simile».
«Sarebbe per voi motivo di imbarazzo se i miei uomini dessero un’occhiata negli ambienti dell’edificio?».
Mellan incenerì Van Axel, che aveva azzardato quella richiesta. Subito dopo però, notando l’atteggiamento accondiscendente della padrona di casa, si dovette ricredere.
«Nessun imbarazzo, capitano». La signora gli sorrise inaspettatamente. «Conosco vostro padre e lo considero un gesto di rispetto nei confronti della vostra famiglia».
Il capitano accennò un inchino di ringraziamento. Aveva sempre cercato di tenere su due piani ben distinti le sue origini nobili da quello che era il suo lavoro. Ma non era affatto un ingenuo: sapeva di occupare il suo posto proprio grazie alle amicizie della famiglia e al cognome che portava. E in una Repubblica governata dal patriziato – dove proprio tra i nobili si eleggeva il doge chiamato a guidarla – era un aiuto che non era sensato trascurare.
Si alzò con deferenza e, dopo aver salutato, seguì il maestro di casa, che improvvisamente da corvo si era tramutato in un cane da guardia. La visita, tuttavia, durò molto poco: i due piani nobili furono perlustrati dal capitano in persona, il piano terra fu invece lasciato all’occhio attento dei birri. E nessuno di loro trovò nulla di vagamente somigliante ai simboli che cercavano di decifrare.
Poco dopo, Van Axel e Mellan furono accompagnati alla loro imbarcazione, ormeggiata a una delle due briccole antistanti le monofore del palazzo. Nembi neri si stavano addensando sui tetti degli edifici e il vento di un imminente temporale estivo sollevava i mantelli.
«Cosa ne pensate, zio?», borbottò il più giovane, immobile sul pontile di legno.
«La signora mi è parsa molto schietta».
«Se avesse avuto qualcosa da nascondere, di certo non ci avrebbe permesso di guardare ovunque».
«Sono d’accordo. A meno che, ovviamente, ciò che intendono nascondere non sia qui…». Mellan salì sulla bissona e si sedette. «Se agli interrogativi che abbiamo aggiungiamo il levantino e la vostra daga, la questione si complica».
«Forse, come dicevate, parlare con il doge potrebbe rivelarsi la mossa più opportuna in questo momento».
«Lodovico». Per sottolineare l’importanza di quanto stava per dire e rinsaldare il loro legame, Mellan usò di proposito il nome di battesimo. «Andare dal doge è inevitabile, le incognite cominciano a diventare troppe. Prima però è necessario che verifichiate che la daga sia la stessa che ha ucciso Sandei. Se è così, e la mano è davvero di un turco, potremmo trovarci di fronte a un affare di politica internazionale».
Qualche gocciolone prese a disegnare cerchi concentrici sul Canal Grande.
«Questa volta, se non ci muoviamo bene, il temporale degli inquisitori ci travolgerà in pieno. E il problema dei codici, dei simboli e di quegli strani numeri, non sarà più il nostro maggior problema…».