Capitolo 37
Prigioni nuove, sestiere San Marco, più tardi.
Tardo pomeriggio.
«Come vi chiamate?».
Alla luce incerta delle torce che ardevano alle pareti, la stanza degli interrogatori aveva l’aspetto di un sepolcro. C’era odore d’urina e nell’ombra si scorgevano gli aculei della temuta sedia di fuoco, uno degli strumenti di martirio più atroci.
Eliardo sapeva che la tortura non veniva più praticata da decenni, ma vedere il macchinario e immaginare chi lo aveva preceduto metteva comunque i brividi. Dal canto suo, seppur non corresse il pericolo di essere arso vivo su quello scranno diabolico, non è che in quel memento se la passasse molto meglio. Con i ceppi a mani e piedi, dal suo sgabello occhieggiò in direzione di una nutrita schiera di magistrati, tutti in fila dietro un lungo e massiccio tavolone.
«Come vi chiamate?», ripeté la domanda il Missier Grande, in rigorosa toga nera. Accanto a lui sedevano i tre inquisitori in parrucca alla cartesiana: due indossavano il mantello nero, il terzo, quello nominato dal doge, la toga rossa. Assistevano il capitano degli zaffi, un funzionario governativo e un cancelliere addetto al verbale.
«Avete udito la domanda?», si intromise Antonio Condulmer, il più irascibile degli inquisitori. Era indispettito per essere stato chiamato d’urgenza per quell’interrogatorio e non vedeva l’ora di concluderlo. In un modo o nell’altro.
«Eliardo de Broglie», mormorò lui.
«Dite la verità!». Un raggio di sole solitario, proveniente dalle sbarre della finestra, illuminò la mano inanellata dell’inquisitore, che tamburellava impaziente sul tavolo. «Il vostro vero nome».
Eliardo tenne il mento incollato sul torace. «Salazar. Filippo Salazar».
«Come vedete, sappiamo su di voi più di quanto credete…».
«Conoscevate ser Gerolamo Venier?», si intromise Mellan.
«Mai visto».
«Eppure, la signora Cristina, sua moglie e vedova, vi accusa di averlo ucciso».
Eliardo sfoggiò uno dei suoi sorrisi sornioni. Anche in quella situazione, riuscì ad apparire sfrontato nonostante la paura. «Con tutto il rispetto, mente, eccellenza».
«Scherzate? È una patrizia. E perché mai poi dovrebbe farlo?»
«Perché Cristina era la prima a volere suo marito morto», esternò Eliardo, fin troppo diretto. «Tutti lo sapevano in città: Cristina odiava suo marito».
«Conoscevate Alvise Quintavalle e Zuanne Sandei?». Senza dare apparentemente peso alle sconvenienti accuse di Eliardo, Mellan cambiò argomento. Era abituato a condurre gli interrogatori in quel modo: con l’esperienza aveva imparato che era il sistema migliore per far tradire l’inquisito.
«Il primo non l’ho mai sentito… Sandei invece lo conoscevo poco».
«E perché allora stavate perquisendo il suo corpo a palazzo dei Camerlenghi?». Van Axel non avrebbe in teoria dovuto porre domande, ma quella gli sgorgò spontanea dalle labbra. Due inquisitori si voltarono verso di lui, inchiodandolo con lo sguardo alle pesanti pareti di noce. Nonostante il biasimo fosse evidente, si astennero dal commentare.
«Rispondete», rincarò la dose Mellan, rafforzando la domanda di Van Axel.
«Ero dispiaciuto per la sua morte».
«Ma avete appena detto che lo conoscevate poco…». Il Missier Grande sfruttò il primo passo falso del giovane per pressarlo con un’altra domanda. «Parliamo invece di Madame d’Aumale: la conoscete?»
«La conosco, eccellenza. È un’amica».
«E mi sapete dire per quale ragione la domestica della nobildonna, una tale Lucia Oldrini, afferma che vivete nel suo palazzo alla Giudecca da alcuni giorni?».
L’alchimista scosse il capo. Cosa poteva rispondere per non cacciarsi in una situazione peggiore di quella in cui era? «È un’amica intima», scherzò, maliziosamente, salvo pentirsi delle sue parole subito dopo.
«A parte la vostra licenziosità, torniamo a Venier: sapevate che a causa della sua morte, o grazie a questa, la vostra amica intima eredita le di lui proprietà?».
Per Eliardo, quella domanda ebbe più o meno l’effetto di un manrovescio sul naso. Provò a fare finta di nulla ma non ci riuscì. Il fatto che non ne fosse a conoscenza fu lampante e chiaro a tutti.
«Sapete cosa penso? Che voi avete ucciso il Venier su incarico della contessa d’Aumale per favorirla nell’eredità».
«Non è andata così!». Eliardo si agitò e le catene tintinnarono nel silenzio. Ecco quindi spiegata l’attenzione della nobildonna per lui: uno stratagemma per farlo sembrare colpevole. Per addossargli la colpa al momento giusto. Quello.
«Sapete cosa penso io, eccellenze», provò a difendersi, mettendo definitivamente da parte l’etichetta. «Penso che Madame d’Aumale mi abbia volutamente invischiato in questa storia».
«E perché mai?», si intromise l’inquisitore rosso.
«Per ricattarmi!».
Gli uomini all’altro lato del tavolo si guardarono e per un instante, nonostante il caldo torrido di quella stanza, calò il gelo.
«Spiegatevi meglio».
Eliardo valutò le alternative. La contessa aveva un fascino innegabile, e per tale ragione considerò anche l’idea di provare a tenerla fuori dalla faccenda. Pur volendole dare il beneficio del dubbio, era però impossibile, oltre che inutile. E l’alternativa oltretutto era diventare lui stesso un pendaglio da forca.
In un batter d’occhi decise di comportarsi come era solito fare in situazioni del genere: pensare a sé stesso prima che agli altri. Se c’era un modo per uscire pulito da quella situazione, era trovare un altro colpevole… e la candidata migliore era, purtroppo per lei, proprio la bella Annika.
«Non so come, ma Madame d’Aumale era a conoscenza che Venier sarebbe morto. E che i sospetti sarebbero caduti su di me».
«Andate avanti».
«Si è approfittata del fatto che io quella sera fossi stato visto con la signora Cristina, per ricattarmi».
«State dicendo che ha organizzato un omicidio solo per ricattarvi?».
Eliardo fissò i magistrati di sottecchi. «O è in grado di prevedere il futuro… oppure è andata proprio come dite voi».
«E chi, quindi, avrebbe ucciso ser Venier?». Condulmer accennò un’espressione falsamente conciliante. «Illuminateci».
«Qualcuno incaricato da lei, eccellenza. O forse direttamente Cristina, sua moglie».
Un lieve brusio di disapprovazione riempì il locale e i magistrati lo sferzarono con sguardi canzonatori.
«Vi rendete conto di quello che state dicendo, signor Salazar», sbuffò ancora l’inquisitore. «La contessa Brûlart avrebbe fatto uccidere un nobile solo per ricattarvi, affinché voi… faceste cosa?»
«Con tutto il rispetto, eccellenze, non sto dicendo esattamente questo».
«Spiegatevi meglio allora».
«Non dico che era tutto già programmato… o forse sì. Non lo so. Ciò che è evidente è però che – se come voi dite Madame d’Aumale aveva da guadagnare dalla morte di Venier – sia lei la mandante del suo omicidio. Il fatto che io fossi con la moglie dell’illustrissimo le ha dato un’opportunità in più: cioè chiedermi di ritrovare un oggetto che le è stato rubato».
«Di cosa state parlando adesso?». Fu Van Axel a intervenire di nuovo, incrociando le braccia. Era la prima volta che nell’indagine emergeva quell’aspetto. Il presunto furto di un oggetto? O l’alchimista era bravissimo a mescolare le carte, oppure, semplicemente, diceva la verità su qualcosa che ancora loro non conoscevano…
«E cosa le sarebbe stato rubato?»
«Una gemma preziosa, una pietra alchemica. Lei credeva che il ladro fosse Naso».
«È per questo che avete perquisito il corpo di Sandei? Cercavate questa pietra alchemica?».
Eliardo annuì.
A quel punto, Van Axel si avvicinò a Mellan per sussurrargli qualcosa all’orecchio. Subito dopo il Missier Grande fece cenno al cancelliere e gli consegnò due fogli, che chiese di mostrare al prigioniero.
«Avete già visto questi documenti?», domandò riferendosi alla rappresentazione del mezzo volo dei Malipiero e alla tabella con il presunto cifrario.
«Dei numeri non so che dirvi, ma il disegno lo conosco», ammise Eliardo, che per un istante rivide il visino sdentato di Cecilia, la figlia dell’oste.
«E cosa rappresenta, a parer vostro?»
«Non lo so, forse è una specie di mappa».
Una specie di mappa.
«Suppongo che abbia a che fare con la pietra preziosa rubata», aggiunse l’alchimista.
Mellan depositò una mano sul braccio di Van Axel e annuì. «Indicherebbe un luogo quindi?», tornò a rivolgersi all’interrogato. «Quale, secondo voi?»
«Ammetto di averci già pensato, eccellenza, e non lo so davvero…». Si fermò, leggendo un velo di delusione sulle labbra del capitano. «Forse, però, mi ricorda la corte di Ca’ Malipiero…», precisò, più nella speranza di acquisire benevolenza che nella reale convinzione di quanto affermava.
E sembrò funzionare, visto che Van Axel si rizzò sulle spalle. «Come avete detto?».
Eliardo si rese immediatamente conto di aver intrapreso una strada proficua e si sforzò di essere più chiaro. «Il simbolo», disse, indicandolo con il mento, «somiglia all’arma dei Malipiero… non chiedetemi perché, ma le figure sottostanti mi fanno invece pensare a una corte e a una vera da pozzo… ad esempio quelli della corte di Ca’ Malipiero».
Van Axel scosse il capo. Anche guardandolo mille volte e con tutta la buona volontà, mai sarebbe giunto alla stessa conclusione. Ciononostante, nelle parole di de Broglie c’era un aspetto decisamente interessante…
Scambiò un’occhiata d’intesa con Mellan e si rese conto che anche il Missier Grande doveva aver fatto simili pensieri.