Capitolo 62

Mira. Poco dopo.

Mattina presto.

 

Alle prime luci dell’alba di quel sabato mattina, i cavalli arrestarono la loro corsa davanti alla villa fumante. Inzaccherati fino ai polpacci, Lodovico Van Axel e Mattio Mellan smontarono dalle cavalcature in compagnia di dieci fanti della Quarantìa.

«Mio Dio!», esclamò il Missier Grande, proteggendosi il naso dall’acre odore di fumo che permeava l’aria. Era stato informato dal capitano di quanto trovato alla Giudecca, e l’importanza delle scoperte l’aveva spinto a muoversi in prima persona.

«Sembra sia passato l’esercito prussiano», commentò Van Axel, contemplando la caligine, sulla facciata annerita della villa. Sotto le luci rossastre del cielo mattutino, si scorgeva un grande parco di alti fusti, bruciati come torce. Al di là della cinta muraria erano visibili cumuli di macerie fumanti, mentre lungo la strada e nei campi circostanti c’erano decine di soccorritori operosi e di feriti adagiati sulla nuda terra.

«Cosa è successo?», interrogò il capitano, avvicinandosi a due popolani. Aiutandosi con secchi di legno colmi d’acqua, questi erano impegnati a spegnere gli ultimi focolai nei pressi del cancello.

Erano giunti fino a quella villa sulle rive del Brenta esaminando le migliaia di documenti trovati alla Giudecca da Van Axel. Ce n’erano numerosi che riportavano la data del 18 luglio, in alcuni si faceva riferimento a ipotetici fallimenti di un certo R. In altri era citato l’ormai noto E.D.B., che sarebbe stato trovato a San Barnaba o ancora sarebbe fuggito a Mira. Quest’ultima era citata in almeno dieci IPOTESI, e nella maggior parte dei casi un palazzo veniva distrutto da un’esplosione o da un incendio.

«Lo scoppio l’hanno sentito fino a Dolo». L’uomo, spalle larghe da contadino e abiti consunti, si rivolse a Van Axel gesticolando come un direttore d’orchestra. Come le altre decine di volontari che si erano precipitati per spegnere l’incendio, aveva il volto coperto di fuliggine e le labbra bianche. «Forse è stato lo scirocco, che ha fatto propagare le fiamme fino al fienile».

«Chi sono tutte queste persone?», si informò Mellan, alzando la voce e indicando i numerosi sopravvissuti seduti sul ciglio della strada: erano tutti uomini con una specie di uniforme, fatta di brache larghe e camice nere che il Missier Grande non conosceva.

Il soccorritore allargò le braccia. «Non lo sa nessuno, non parlano veneto». L’uomo ammutolì ma poi, osservando la marsina e la toga di Mellan, si convinse a continuare. «Comunque sono piuttosto fortunati: nella stalla, ci sono almeno cinquanta corpi, tutti vestiti come loro…».

Udite quelle parole, Van Axel non si fece pregare e avanzò lungo il sentiero, facendosi strada tra le decine di volontari operosi. «Statemi ad ascoltare», urlò, salendo su un carro e posizionando le mani a coppa attorno alla bocca. «Qualcuno parla la mia lingua? Mi sapete dire cosa è accaduto?».

Alcuni egiziani lo fissarono senza muoversi, altri invece tennero il volto basso.

«Mi capite?», continuò Van Axel. «Cosa è successo qui?».

Una volontaria, una ragazza giovane con indosso una casacca lisa e un tabarro, si avvicinò camminando tra i sopravvissuti. «Là dietro, eccellenza, ce n’è uno che si chiama Ahmed», disse, indicando con la mano in direzione del bosco che faceva da confine alla proprietà. «Parla un po’ la nostra lingua».

Van Axel saltò giù dal carro e insieme a Mellan si avvicinò al sopravvissuto, che era seduto per terra con le braccia attorno alle ginocchia e lo sguardo vuoto.

«Sono il Missier Grande della Repubblica», si qualificò Mellan, accosciandosi per poter guardare in viso il giovane. «Mi dicono che mi capite. Voi e i vostri compari lavoravate per Madame d’Aumale, giusto? Cosa è successo qui?».

Ahmed Hassan, di Alessandria d’Egitto, matematico e filosofo, sbatté le palpebre. Non aveva più di trent’anni e i suoi occhi neri arguti erano la rappresentazione del terrore. «Nostra padrona fatto esplodere chiesa», rivelò, sussurrando appena. «Per uccidere soldati».

Mellan si accigliò. «Soldati?»

«Soldati di Levante: così detto contessa. Senza uniformi. Volevano uccidere mia padrona».

Van Axel si strofinò le palpebre, infastidito dal fumo che ancora ammorbava l’aria. Tra le decine di curiosi e soccorritori che avevano invaso il sentiero, non vedeva altri sopravvissuti se non quella ventina di uomini. «E ci sono riusciti?», sussurrò. «A uccidere la vostra padrona, intendo».

L’egiziano scosse il capo, ma prima di rispondere fu colpito da un attacco di tosse. «È fuggita», disse infine. «Io non sa dove…». Subito dopo, però, come in preda a un’illuminazione mistica, indicò una vettura con due cavalli, ferma poco lontano lungo i prati umidi che circondavano il sentiero. Il cocchiere era immobile a osservare l’andirivieni di soccorritori, aveva le gambe larghe e le braccia conserte. «Quella però è una di sue carrozze».