Capitolo 1
Palazzo Venier, sestiere San Paolo, sabato 11 luglio 1761.
Poco dopo l’alba.
Nuvole bianche e nere, alternate a squarci di cielo azzurro striato di rosso.
Sbatté le palpebre, abbagliato dalla luce mattutina, e mosse qualche altra falcata incerta sul tetto umido. Incespicò e dovette poggiare le mani sui coppi per non cadere di sotto. Barcollando, si aggrappò a un comignolo fumante e tornò a scrutare in alto, oltre le guglie e i campanili. Doveva ammetterlo, da lì la vista dell’alba specchiata dalle polifore del Canal Grande era impareggiabile.
Non che si fosse arrampicato fin lassù per vedere il sole sorgere. Nent’affatto. Oltretutto con indosso solo una misera camisiola che svolazzava a ogni folata di vento. Ma meglio infreddolito che morto…
«Mio marito!», aveva urlato la signora Cristina, giovane moglie di un patrizio del Luprio, pochi istanti prima. «Mio marito è già rincasato!».
Eliardo de Broglie si era alzato su un gomito, coperto solo dalle fini lenzuola del letto a baldacchino. «State scherzando?», aveva sussurrato. Ma poi si era reso conto che Cristina, seni piccoli accarezzati dai boccoli biondi che le cadevano sulle spalle, non scherzava affatto: dalle imposte della finestra, coperta dal tendaggio dorato, filtravano lame di luce giallognola. Fuori albeggiava.
«Vi siete addormentato», lo sferzò lei, sgomenta. Prese a tremare come una pentola d’acqua bollente. «Presto. Fate presto, dovete andare!».
Ma in quel momento, passi decisi si erano affacciati sul ballatoio del piano nobile. Uno scricchiolio sulla scala di legno, al di là della massiccia porta della camera, aveva annunciato la presenza di qualcuno.
Eliardo non si era fatto pregare. Con un balzo era saltato fuori dal letto e si era diretto alla commode: i suoi abiti erano in parte arruffati sul piano e in parte appesi allo specchio barocco. Non riuscì a rivestirsi perché la donna, il volto trasfigurato, aveva già spalancato il tendaggio e aperto la finestra. Senza badare alle buone maniere, aveva afferrato il tricorno e la parrucca e li aveva scaraventati di sotto, nel canale. «Presto, per di qua. Fuori dalla finestra!», gli aveva ingiunto.
L’alchimista, che nel frattempo aveva inforcato unicamente la camisiola, teneva una scarpa dalla fibbia lucida in mano e carponi stava cercando l’altra. Ma non c’era tempo: si era tirato su e seppur dubbioso era stato lesto a muoversi sul davanzale. Se non avesse fatto in fretta, aveva pensato, Cristina – nota in tutta Venezia sia per la sua dissolutezza che per l’irritabilità del marito – avrebbe buttato di sotto anche lui.
Si era spostato oltre il balcone di marmo, barcollando, e proprio mentre due piccioni volavano via, la finestra era stata richiusa alle sue spalle. In pochi istanti era passato dal sonno profondo a trovarsi sospeso sul Canal Grande, mezzo nudo e con una schiera di garzoni di bottega assonnati che lo fissavano dal basso.
Cristina e il marito avevano preso a discutere animatamente. Almeno così aveva dedotto, perché le loro voci, seppur attutite, erano arrivate pungenti fino alle sue orecchie.
«Dov’è?», aveva urlato lui, il tono che lasciava immaginare quanto fosse alticcio. «Dov’è? Lo uccido!».
Eliardo si era guardato intorno. Non era la prima volta che un marito geloso lo inseguiva, ma era sicuramente la prima che per sfuggirgli si arrampicava sulla facciata di un palazzo.
Poco distante, l’edificio piegava a destra, in una calle silenziosa; dietro, per nulla vicino, a una prima occhiata, emergeva il ponteggio di legno di un cantiere. Si era mosso, aggrappandosi ai pilastrini di marmo che sorreggevano gli archetti della facciata. Di finestra in finestra, con un solo mocassino ai piedi, aveva raggiunto la decorazione traforata sul confine del palazzo. Ci era arrivato giusto in tempo, nell’istante in cui il marito di Cristina aveva spalancato vigorosamente le imposte.
«Guardate voi stesso!». La voce impaurita della donna aveva provato a placarlo, mentre lui guardava a destra e a sinistra. Ma l’alchimista era già scomparso: aveva strisciato i talloni tremanti su una sporgenza del marmo e poi, con un’agilità tipica della giovane età, aveva raggiunto il ponteggio con un salto. Si era arrampicato come un ragno, infilando i piedi in alcuni pertugi del muro, e ora si trovava lì, sul tetto del palazzo.
L’alchimista si fermò sul colmo scosceso a prendere fiato. Da quell’altezza si dominava la città addormentata, da Rialto fino all’arsenale. Si vedevano le corti nobiliari, le calli e i campielli a quell’ora deserti; la Salute emergeva dalla foschia della laguna e faceva da contraltare alle guglie e ai pinnacoli del palazzo Ducale. Tutto risplendeva di una luce ambrata, un arcobaleno di colori degno di una tela del Tiepolo.
Controllò in basso. Si trovava non lontano da volta de Canal e stimò quindi che con un po’ di fortuna sarebbe potuto arrivare a casa in pochi minuti. Sempre ammesso di riuscire a trovare un modo per scendere indenne dal tetto.
«E questo?», udì all’improvviso, come se la voce dell’illustrissimo ser Gerolamo Venier, l’iracondo marito di Cristina, fosse stata trasportata dal vento.
Eliardo si bloccò di colpo, quasi temesse che i propri passi incerti potessero tradire la sua posizione. Si mise in ascolto, sporgendosi dal colmo per riuscire a scorgere il pòrtego. Gerolamo era lì, di spalle, con la parrucca fuori posto e l’aria furibonda. Agitava le braccia come un direttore d’orchestra, con i pizzi e merletti dorati che facevano capolino da sotto il mantello.
«E questo?», fece ancora, la voce tremante. «Un mocassino di capretto da uomo!».
A udire quelle parole Eliardo trasalì, ritraendosi. Si guardò il piede scalzo e si rimproverò di essere riuscito a trovare soltanto una delle due scarpe. Ma d’altra parte era accaduto tutto così in fretta…
«È forse vostra, cara moglie? Una scarpa da uomo», sbottò, tremebondo. «Il Carnevale non sarà che tra qualche mese. Vi divertite a indossare abiti da uomo mentre non ci sono, oppure nascondete qualcuno?».
Eliardo si dispiacque per Cristina, ma ormai era troppo tardi. E dopotutto, non era certo la prima volta che tradiva il marito. Lo sapeva tutta Venezia e i suoi stessi domestici facevano a gara per agevolarla, accumulando così cospicue mance. La sera prima, proprio da una porticina della servitù su rio di San Tomà, era entrato anche lui, accompagnato da risolini complici.
Si voltò, con il viso accarezzato dal sole striato di rosso, e mentre si arrampicava verso la linea di colmo si disse che Gerolamo l’avrebbe perdonata. Come sempre.
D’un tratto, un colpo acuto, simile a un vetro che si frantuma, lo costrinse a fermarsi di nuovo. Percepì come degli schizzi, lontani e attutiti.
“Che diavolo?”.
Dalla sua posizione ora riusciva a vedere abbastanza bene il portale d’acqua e la superficie increspata del canale.
E poi una voce. Un grido gutturale e qualcosa che precipitava di sotto.
Eliardo si strofinò gli occhi. Sulle prime pensò si trattasse di un sacco nero, o forse di un pezzo del pregiato mobilio. Credeva di aver visto male ma più osservava la scena dall’alto, più si convinceva che non era affatto così: era una persona.
Distinse il mantello nero che turbinava nel canale e un inconfondibile giustacuore color verde acqua con paramaniche. Era l’illustrissimo ser Gerolamo, non potevano esserci dubbi.
«È caduto. Il paròn è caduto dalla finestra», proclamò qualche garzone. Dalla riva opposta del Canal Grande un altro inserviente si tuffò, in aiuto del patrizio.
Impotente, Eliardo osservò la scena dal tetto. Ma lo spettacolo durò molto meno di quanto si sarebbe aspettato: appena prima che il giovane soccorritore lo raggiungesse a nuoto, il nobile smise di agitarsi e si inabissò come un’àncora in un mulinello.
«Affoga!», azzardò un’altra voce allarmata. «Aiuto, il paròn sta affogando».
«Fate presto!», spronò qualche altro garzone. Ma ormai era evidentemente troppo tardi. I movimenti prima energici del patrizio erano cessati da alcuni lunghissimi istanti, e sulla superficie restava solo il mantello galleggiante. Gli schizzi erano stati risucchiati dal canale.
Con il viso terreo, Eliardo fu lesto a guadagnare la falda opposta del tetto e si sedette a rifiatare. Pensieri funesti gli annebbiarono la mente. Non perché gli importasse qualcosa del borioso signor Gerolamo, che oltretutto conosceva appena. La ragione era molto più concreta: con un patrizio di quel calibro morto e i suoi precedenti con i Signori della notte, i guai sarebbero andati a cercarlo con prepotenza. A chi affibbiare la colpa se non al giovane amante della moglie? Avrebbero potuto mentire, incolpandolo di averlo spinto?
Completamente sudato, rimase immobile per alcuni istanti. Da dove si trovava riusciva a percepire nitidamente i suoni dei remi delle barche, le urla, le voci affrante e concitate. Non seppe per quanto rimase seduto, ma alla fine, scosso da un alito di vento, si alzò e con l’unica scarpa si diresse verso rio di Ca’ Foscari.
Non si accorse dell’ombra ammantellata che l’aveva osservato dalla riva del teatro di Sant’Angelo, dalla parte opposta del canale, fin dalla sua fuga dalla finestra.
A differenza dei molti curiosi che stavano ora accorrendo sul luogo dell’incidente, la figura tirò su il cappuccio, girò le spalle e scomparve nella stretta calle.