Capitolo 18

Sestiere Dorsoduro. Più tardi, quello stesso giorno.

Metà pomeriggio.

 

Forzato il portoncino, i birri si ritrovarono in una piccola corte pavimentata in masegni e con una vera da pozzo al centro.

Erano dietro l’angusta calle dei Putti, non lontano da campo San Barnaba, in un edificio che risultava di proprietà del ricco patrizio Marco Foscarini. Dalle informazioni raccolte, l’entrata della casa di Eliardo de Broglie era al primo piano, oltre una porta laccata affacciata sull’unico pianerottolo.

«Apriamo», annunciò Van Axel, fermo sul primo gradino della scala.

Gli uomini al suo comando, due zaffi e tre birri armati di tutto punto, sollevarono un ariete di ferro e lo scagliarono con violenza contro il battente. Fatta eccezione per un lieve cigolio, non successe nulla. Fu necessario ripetere l’operazione per due volte e, al terzo tentativo, la serratura cedette.

L’interno fu inondato dell’abbagliante luce pomeridiana: era un ambiente accogliente, in pieno contrasto con l’abbandono delle calli circostanti. A Venezia, tuttavia, trovare alloggi lussuosi in quartieri malfamati come quelli era un fatto abbastanza usuale.

«Avanzate con discrezione», sussurrò appena il capitano, tenendo la mano sulle armi per evitare tintinnii. «Potrebbe essere in agguato e di certo ora ci avrà udito».

Così fecero: uno dietro l’altro, gli armigeri entrarono nella prima stanza, dominata da un grande camino in pietra e arredata con gusto da mobili alla francese. Gli scuri erano serrati e un unico raggio di sole penetrava obliquo dal traforo.

«Qui non c’è nessuno. Da quella parte», suggerì uno dei birri indicando una porta semiaperta da cui emergeva un letto in perfetto ordine.

Entrando nella stanza da notte, furono accolti da un grande ritratto a olio, presumibilmente del padrone di casa. Non se ne poteva essere certi, ma la descrizione corrispondeva alle informazioni raccolte: bell’aspetto, occhi verdi, lineamenti androgini, sorriso beffardo.

«Forse ho trovato qualcosa!». La voce di uno degli zaffi richiamò l’attenzione da una seconda porta. Dava accesso a una ripida scala di legno che saliva nel sottotetto e, quando lo raggiunse, il capitano non rimase troppo sorpreso.

«Ecco perché lo chiamano l’alchimista…».

Da quanto aveva appreso prima dell’irruzione, Filippo Salazar – l’uomo conosciuto con il falso nome di Eliardo de Broglie – non a caso era soprannominato in quel modo. Risultava ospite del proprietario di quell’edificio, il mecenate Marco Foscarini che si mormorava sarebbe stato il futuro doge. Passava per un guaritore in possesso della pietra filosofale, capace di trasformare il vil metallo in oro e in argento. La verità era che in molti avevano cominciato a lamentarsi con qualche magistrato delle false promesse di de Broglie: la polvere magica che vendeva, lo accusavano, non si tramutava mai in oro e la gotta non guariva affatto.

Incerto, Van Axel mosse alcuni passi sull’assito, che scricchiolò sotto i suoi stivali. Davanti a lui si apriva un laboratorio in piena regola, con al centro un athanor, un piccolo forno metallurgico a forma circolare, sormontato da una cappa. Accanto, un bancone da lavoro su cui erano sistemate coppette, fiale, bottiglie di vetro, pinze, cucchiai e un mortaio. Poco distante troneggiava un distillatore di vetro e una fila di fornelli.

«Se è un impostore, sa fingere bene», commentò il torvo zaffo che aveva trovato il laboratorio.

«Così come sa fingere di essere un nobile…». Van Axel si avvicinò a un cofanetto di legno dipinto con motivi floreali e lo aprì. All’interno erano sistemate alcune pietre preziose: ametiste, qualche diasporo verde, lapislazzuli. Ne afferrò una tra le dita, portandola a favore della luce che penetrava da un’apertura nel sottotetto.

«Sono false», sentenziò dopo una semplice occhiata.

«Qui ce ne sono altre», ribatté il militare.

In effetti, nei pressi del forno alchemico c’era una cesta più grande, contenente cumuli di pietre di vetro delle stesse dimensioni ma di colori impuri.

«Sembrano reali, ma sono gemme artificiali», spiegò Van Axel. Il suo occhio, abituato a contrastare i reati di contrabbando, era allenato a distinguere turcherie di quella fattura. «Si dice che Raimondo di Sangro sia riuscito a creare in laboratorio preziosi di luminosità e bellezza paragonabili a quelli reali. De Broglie afferma di essere stato suo allievo, quindi almeno su questo forse non ha mentito…».

«Capitano!», un’altra voce arrivò dalle scale. «C’è una donna che chiede di voi».

Van Axel si accigliò. «Chi è? Non vi ha detto il suo nome?».

Il militare mimò un rammaricato no con il capo. «Dice che vi conosce. E che voi conoscete lei». Mentre pronunciava quelle parole scesero la scalicciola. La ragazza, con indosso un elaborato abito color crema e uno stretto corpetto, era in piedi al centro del locale. La parrucca bianca era coperta da uno zendado dello stesso colore del neo posticcio poco sopra il labbro superiore.

«Ho un messaggio per voi dal mio padrone», esordì, porgendo una busta con un sigillo di ceralacca.

Van Axel impiegò qualche istante per rammentare chi fosse, ma alla fine non s’ingannò. Benché l’avesse veduta solo per pochi minuti e con la maschera sul viso, lo sguardo era inconfondibile: si trattava di una delle due accompagnatrici di Marcello Lin, incontrata la sera precedente al Florian.

Prendendo dalle mani della ragazza il biglietto, il capitano fu sul punto di domandarle come il nobile sapesse che lui si trovava lì. Durante il colloquio della sera precedente aveva avuto la sensazione che Lin avesse, a dispetto di ciò che diceva, un debole per lui. Quell’affrettarsi a smentire e quei messaggi a mezza voce… Possibile che il nobile fosse anche lui dedito al libertinaggio, come lo speziale di cui aveva sparlato?

Non ebbe occasione di darsi una risposta, perché appena ebbe rotto il sigillo fu rapito da una lettura decisamente più interessante delle sue supposizioni.

«Vi ringrazio. Madame…?»

«Laura. Laura Picchi, per servirvi».

«Vi ringrazio, Madame Laura. E ringraziate il vostro padrone per la gradita informazione». Così dicendo, Van Axel richiamò i suoi uomini. «Andiamo, se de Broglie è stato qui, difficilmente tornerà». Si mosse verso la porta con la lettera gibbosa tra le dita. «Abbiamo un altro luogo da visitare».

Mentre usciva, rifletté su una delle frasi contenute nel messaggio: “Guadagnare il vostro favore”, diceva, a un certo punto, verso la fine. Era solo lui che ci vedeva un doppio senso?

Che si sbagliasse o meno, era comunque una buona informazione: sorridendo, lo rilesse nuovamente da capo.

 

Gentile Lodovico, posso chiamarvi così? Spero non ve l’abbiate a male.

Dopo il nostro gradito colloquio mi sentivo in dovere di fornirvi qualche nuova informazione. Ho chiesto a conoscenti comuni e ho finalmente saputo il nome dell’uomo che cercate, lo speziale che era al tavolo da gioco con me e Naso. Si chiama Alvise Quintavalle e gestisce la bottega Alla Mano d’Oro in campo San Giacomo.

A vostra domanda, avevo rammentato che lo speziale portava una moretta di colore rosa. Ebbene, ho saputo che proprio quella sera, Quintavalle è stato derubato sia del mantello che della maschera. Ignoro se la cosa sia in qualche modo collegata alla vostra indagine, tuttavia pare che il Nostro abbia veduto il ladro molto bene, mentre… be’, mentre era in dolce compagnia. Non è mia intenzione sostituirmi a voi, mi permetto però di suggerirvi di parlare con lo Speziale: forse il ladro, se non è lui stesso il criminale che andate cercando, potrebbe esservi utile a trovarlo.

Certo di aver fatto cosa gradita, che mi consentirà forse di guadagnare il vostro favore, vi porgo i miei omaggi.

Al vostro servizio.

Marcello