Capitolo 41
Taras, Magna Grecia, 389 a.C.
2152 anni prima… Ventotto anni prima del viaggio di Archita a Delphi…
Erano arrivati da tutta la Grecia, dalla Fenicia e anche dall’Egitto: novantanove giovani matematici pronti ad aiutarlo, a diventare i discepoli del grande stratego Archita.
Mentre il padrone di casa li osservava cogitabondo, si convinse che sistemarli tutti in un unico ambiente era stata un’ottima intuizione. Erano seduti gli uni accanto agli altri e, con l’aiuto di rotoli di papiro, stavano eseguendo tutti i calcoli resi necessari dalle migliaia di variabili del suo teorema.
Inizialmente, per garantire il benessere e il rispetto dell’importante ruolo dei suoi collaboratori, Archita aveva diviso i discepoli in gruppi. Alla fine, tuttavia, il pitagorico si era convinto che fosse più comodo un locale unico: senza nulla togliere alle loro competenze e al suo innato senso della giustizia, tutti insieme avrebbero lavorato meglio. Avrebbero potuto scambiarsi più facilmente opinioni e confrontarsi puntualmente sull’esito dei calcoli.
Nell’estate precedente, aveva così fatto costruire una grande struttura in mattoni attigua alla villa sul golfo, e all’interno vi aveva fatto sistemare file di tavoli e sgabelli.
E adesso, il suo progetto era in fase estremamente avanzata: quello che poteva una mente sola, più menti erano in grado di verificarlo in minor tempo e con anche la possibilità di confrontare i risultati. Grazie all’idea del suo servitore Estieo, che si era offerto di aiutarlo nei calcoli, il numero dei matematici era aumentato notevolmente. Considerando che più erano le menti meno erano i tempi di elaborazione, si era passati in pochi mesi dai due iniziali – Archita e Estieo stessi – a dieci, trenta e poi ottanta. Trovare sufficienti esperti di intervalli e di numeri irrazionali non era stato facile, soprattutto in un territorio dedito più alla gleba che al sapere. Si era quindi reso necessario un viaggio fino a Crotone. Lì, Estieo aveva arruolato un numero sufficiente di pitagorici, che assieme agli altri si erano trasferiti a Taras per lavorare fianco a fianco con lui e Archita.
In meno di due anni, i postulati elaborati dallo stratego – i presupposti essenziali per la dimostrazione del teorema – erano diventati quindici. Il padrone di casa, però, con l’aiuto di quei matematici, ne aveva già in mente diversi altri che gli avrebbero permesso di affinare la sua teoria.
«Padrone», lo disturbò Estieo, mentre lo stratego era chino nel suo studio, alle prese con una dimostrazione. La luce lattescente del mattino penetrava diagonalmente dalla finestra, e il cielo autunnale cominciava a confondersi con il mare piatto. «Padrone, è arrivato il tuo nuovo candidato».
Archita si alzò di scatto, impaziente di conoscere il discepolo numero cento. Sempre che, ovviamente, superasse il colloquio con lui. «Fallo accomodare nel prestilio principale».
Così fece il servitore, e riordinato l’abito, in pochissimo tempo Archita attraversò le stanze del piano terra e lo raggiunse. Il prestilio si affacciava direttamente sulla porta d’ingresso, e all’interno del colonnato troneggiava una bella fontana e alcuni alberi da frutta ingialliti dai primi freddi.
«Ben arrivato, amico mio», lo salutò il padrone di casa.
Sapeva che il nome del candidato era Timeo di Mnesagete: era un giovane orfano la cui famiglia era stata massacrata dai persiani nelle Egadi. Aveva una folta chioma di capelli neri, una pelle olivacea, due occhietti furbi come un’aquila e un sorriso arguto, che al primo impatto gli parve quasi falso. Indossava una tunica abborracciata, un mantello da viaggio e dei calzari impolverati.
«È un onore poter essere qui, stratego», esordì il giovane, accennando a un saluto con la testa.
«Sono felice che tu abbia accettato il mio invito, Timeo». Archita indicò con la mano il prestilio e cominciò a camminare lentamente sull’acciottolato. «Mi dicono che sei tra i più rispettati pitagorici della tua città».
«Come te, faccio del mio meglio».
Archita annuì lentamente. A dispetto dell’espressione, il ragazzo non sembrava poi così umile come le sue parole comunicavano. Ciononostante, il suo tono temerario e deciso, il modo di parlare che lasciava intendere la sua sicurezza, gli piacevano. Gli ricordava sé stesso qualche anno prima: una mente inquieta, certo, ma dalla quale era però nato il progetto che stava affinando.
«E dunque, conosci il motivo per cui ti abbiamo chiesto di affrontare questo lungo viaggio?».
Timeo fece dondolare il mento su e giù. «Certo, e sono onorato del tuo invito».
Giunti in prossimità delle porte che davano accesso alle stanze delle donne, il padrone di casa si fermò. Su un tripode era poggiata una giara di terracotta e delle tazze.
«Una spremuta d’uva?», propose, accennando al vino con un sorriso. Più che un gesto di gentilezza era una prova: voleva verificare che i rigidi dettami mistico-religiosi dei pitagorici, che richiedevano autocontrollo anche nell’alimentazione, fossero davvero rispettati.
Il giovane infatti rifiutò educatamente.
«Che cosa sai di ciò che facciamo qui?», domandò ancora, rallegrandosi, Archita.
«So che stai lavorando al tuo teorema. Sono eccitato dall’idea di potermi rendere utile».
«E sai qual è l’argomento del teorema?»
«I numeri naturalmente. La matematica per essere più precisi». Il giovane si fermò un istante, con il fare inquieto di chi ha molto da dire ma non sa decidere se farlo. «Conosco i princìpi su cui fondi il teorema: la scoperta del calcolo ha fatto cessare le discordie e accresce la concordia. Per mezzo del calcolo i poveri ricevono dai ricchi e i ricchi danno ai poveri, avendo fiducia gli uni negli altri. Il calcolo, in sostanza, è lo strumento dei giudizi e impedisce i torti».
«Molto bene», si complimentò Archita, «ma non è tutto: il calcolo permea ogni aspetto del cosmo, dalla meccanica all’agricoltura, dalla statistica alla musica».
«Ho letto dei tuoi studi sulle proporzioni musicali», intervenne Timeo. «Trovo geniale il tuo spunto sulla simmetria degli intervalli dei tetracordi».
Archita si risentì per essere stato interrotto, tuttavia si dimostrò colpito da quanto il giovane sapeva di lui e dei suoi studi. «Qui non ci occupiamo di musica, però», lo corresse subito. «Ma del rapporto tra la matematica e il cosmo che ci circonda: ti se mai chiesto cos’è il sereno? È tranquillità di massa e aria. E di cos’è la bonaccia? È uniformità della superficie. Perché le parti delle piante e degli animali che non servono come organi sono tutte arrotondate? E perché nel nostro corpo le singole parti sono triangoli o poligoni?».
Il giovane lo fissò incerto, senza saper rispondere a quegli interrogativi.
«Perché la natura stessa è fatta dalla perfezione dei numeri: racchiude in sé il pari e il dispari, il mosso e l’immobile, il buono e il cattivo». Lo stratego si rese conto che, senza spiegare i suoi postulati e lo scopo della teoria, quei discorsi potevano diventare troppo complessi, quindi si fermò. «La natura è fatta di numeri», vagheggiò alla fine, sintetizzando. «Comprendendo i numeri si comprende la natura».
«Capisco cosa intendi, stratego», replicò invece il giovane, contemplando gli spruzzi arzilli della fontana nel prestilio. «La scienza del calcolo è superiore a ogni altra sapienza, è questo ciò che intendi? La scienza del calcolo può spiegare il mondo molto più chiaramente della geometria».
Ancora una volta, a quelle parole Archita si dimostrò colpito. Timeo era intelligente e soprattutto sapeva come adularlo. Quell’ultima frase, infatti, era la sintesi perfetta di quanto Archita pensava: i numeri per comprendere e piegare la realtà. Aveva superato l’esame.
«Bene, Timeo, ti andrebbe di unirti al gruppo, quindi?»
«Sarebbe la mia massima aspettativa», si lasciò andare il giovane, con aria estasiata. «Spero di non deluderti».
Archita lo osservò, fiero. Con Timeo di Mnesagete, la squadra di matematici aveva raggiunto quota cento. Probabilmente ne sarebbero serviti altri, ma, già così, il teorema con le sue variabili avrebbe potuto essere testato.
«Vieni, ti mostro dove lavorerai», concluse, poggiandogli una mano sulla spalla.
Non poteva saperlo, ma scegliendo Timeo aveva segnato per sempre non solo la sorte dei suoi studi, ma anche la sua stessa vita.