Capitolo 51

Sestiere Dorsoduro. Più tardi, quello stesso giorno.

Tardo pomeriggio.

 

Con i brividi che lo scuotevano in ogni parte del corpo, Eliardo affrontò gli ultimi gradini, si affacciò sul pianerottolo e spalancò la porta smaltata.

L’inconfondibile aroma degli elementi fusi nell’athanor, il suo forno alchemico, gli aggredì le narici, restituendogli un piacevole odore di casa. La luce pomeridiana entrò trasversalmente dalla porta aperta, con gli ultimi raggi di sole che si allungarono pigri sul pavimento di legno. La casa era stata perquisita, era evidente, ma nel complesso i trumeaux gemelli di radica e le sedie con gambe a sciabola erano intatti.

Vi si lasciò cadere, privo di forze e dolorante al braccio. Era stata una giornata estenuante. Una delle peggiori, se non la peggiore in assoluto, della sua intera vita.

Ripensando alle ultime ore, si ritenne comunque fortunato a essere riuscito ad arrivare fino a casa sano e salvo. Dopo la strana perquisizione di cui era stato spettatore impotente, era ripiombato nel torpore delirante della febbre. Non sapeva per quante ore fosse rimasto incosciente su quel letto maleodorante di medicamenti. Solo di una cosa era certo, l’ultima volta che si era svegliato, la luce di mezzogiorno scendeva perpendicolare dall’abbaino del tetto.

Si era messo a sedere e con sorpresa aveva constatato di essere tutto intero. Si sentiva spossato, quello sì, ma era riuscito ad alzarsi. Le stanze, che aveva intravisto tra le domande dello sconosciuto che gli arsenalotti chiamavano Trevisan, adesso erano completamente disabitate. Era certo di non aver sognato l’interrogatorio, perché tutti i cassetti e il resto del povero mobilio erano rovesciati sul pavimento.

Non ci aveva riflettuto granché: l’unico pensiero cosciente che era riuscito a elaborare era stato quello di tornarsene a casa. Non voleva più sentir parlare di Madame d’Aumale e delle sue losche trame. Non voleva più saperne nulla di omicidi e di strani scribi alla Giudecca. L’unica cosa che anelava era rimettersi in sesto nel suo letto. E se fossero andati a prenderlo, tanto meglio, si sarebbe tolto il pensiero.

Una volta uscito dalla casa a Murano aveva chiesto il passaggio sul ponte malandato di una caorlina e ora era di nuovo a Dorsoduro.

 

 

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Inspirò a fondo l’aria fresca del suo alloggio, si alzò dalla sedia e, passando davanti al dipinto che lo ritraeva con abiti da nobile, riuscì soltanto a farsi sfuggire un sorriso. Risaliva a una vita precedente… ormai.

Si spogliò e, dopo essersi lavato con l’acqua stantia di una tinozza sul tavolo da toeletta, lasciò andare le sue membra sul letto.

Riaprì gli occhi immediatamente. Almeno così percepì lui, ingannandosi: fuori ora era buio pesto.

Qualcuno stava bussando alla porta.

«Chi è?», domandò, scattando in piedi. La febbre doveva essere del tutto scomparsa, perché gli pareva di stare meglio. Afferrò alcuni abiti eleganti dall’armadio, un panciotto, una camisiola pulita e si buttò sul capo una parrucca, precipitandosi all’ingresso. «Chi è?»

Ancora colpi, ma nessuna risposta.

Tolse la sicurezza al battente e si immobilizzò di colpo davanti alla vista di un quadrello acuminato. Non si concentrò troppo sul gigante ammantellato con una moretta sul viso che lo brandiva, bensì fece un respiro profondo.

Come di fronte maggior parte delle decisioni importanti della sua vita non vi rifletté lungamente. Era preferibile essere vivo e in fuga che morto… Scelta poco onorevole forse, ma meglio lambire il buio come una pallida luce, piuttosto che rischiare di spegnersi per sempre; approfittando del fatto che la scala alla sua destra era apparentemente sgombra, sgusciò di fianco all’intruso e si catapultò giù. La fuga non fu del tutto indolore, perché, in una qualche fase della discesa, rimediò un taglio superficiale all’addome. E non fu quello l’unico o il più grave dei problemi: giunto sull’angusta calle di Puti, fu costretto ad andare in una sola direzione: verso il rio, in trappola.

“Facile come buttar giù un bicchier di vino”, pensò, ripetendosi con rabbia le parole di Madame d’Aumale, all’inizio di tutta quella storia. Mentre vedeva il mantello nero avvicinarsi, con una mano si tastò prima la ferita all’addome e poi quella al braccio. Una macchia scarlatta si allargava velocemente sulla sua camisiola bianca.

“Così tanto facile che ci ho guadagnato una palla di pistola e ora anche una coltellata”.

Si ritrovò immobile, con i tacchi sul bordo del rio. Il suo aggressore era lì, a pochi passi: mascherato e avvolto nel tabarro nero che celava un fisico imponente.

L’alchimista allargò le braccia in segno di resa. «Non fatemi del male», implorò. Per quanto lo ritenesse impossibile, osservando il gigante, non poteva fare a meno di pensare a Rudolf. «Cosa volete? È per quella pietra? Non ho rivelato nulla agli ottomani».

L’aggressore lo ignorò ed estrasse nuovamente dalla velada il quadrello appuntito, che luccicò alla luce della luna.

Eliardo deglutì, terrorizzato. Più fissava quella specie di stiletto acuminato, più i ricordi gli sovvenivano. Aveva già visto in azione quella lama quadrata, subito dopo il colpo di pistola davanti a palazzo Malipiero. Quel pensiero gli dette la certezza che dietro la maschera ci fosse proprio Rudolf. “Perché?”, avrebbe voluto chiedere. “Dove aveva sbagliato, per meritarsi quel trattamento?”.

Non fece nessuna delle domande che lo sfiorarono. Si limitò a scrutare dietro di sé: il rio de San Barnaba non era che a mezzo passo, una tavolozza di ombre increspate che ondeggiava sotto le imbarcazioni ormeggiate.

Passò in rassegna tutte le alternative: poteva superare l’aggressore, scappando poi verso campo Santa Margarita? Impossibile: era debole, spossato dalla febbre e disarmato. L’unica altra via d’uscita era fare ancora mezzo passo indietro e saltare nel rio sottostante. Non era l’opzione migliore… tuttavia…

«Dove credi di andare, gaglioffo?».

Sì, per quanto poco l’avesse udita, quella voce era certamente di Rudolf. Perché lo stava aggredendo?

Non indugiò oltre in interrogativi che si fermavano inequivocabilmente di fronte al quadrello: morse una mano al gigante e saltò in acqua. Per un istante si pentì di essersi vestito in tutta fretta, le scarpe con la fibbia, lo jabot, il pizzo. Tutto sembrava opporsi alle sue bracciate in cerca di libertà.

Non si voltò e si dedicò invece alla fuga. Quando non ne poté più di nuotare, per il dolore al braccio e per la stanchezza, si arrampicò sulle fondamenta e si mise a correre, impacciato dagli abiti ora grondanti d’acqua salmastra. Ma la sua fuga si fermò quasi subito, di fronte ai compari di Rudolf.

«State sbagliando persona», squittì. «Non ho io ciò che cercate; perché lo state facendo? Giuro che non ce l’ho». Fece una pausa, rivolto al gigante, che nel frattempo era sopraggiunto. «Sono svenuto a Murano, non ricordo nulla… ahi!».

Uno degli aggressori gli tappò la bocca e gli inclinò la testa fradicia in avanti.

«State fermo, messerin Eliardo», sibilò il Rudolf, atono. «Siete stato bravo ad arrivare fino a qui… ma ora dobbiamo finire il lavoro».

“Prima mi salvano e ora mi vogliono uccidere?”.

«Madame d’Aumale sa quello che mi state facendo?». L’alchimista provò a muoversi, ma due energumeni glielo impedirono di nuovo. L’aggressore alzò il pugnale e, con un movimento sapiente del polso, glielo piantò nella carne.

«Aiuto!», urlò l’alchimista. Era sicuro di aver veduto dei birri, poco lontano, e forse potevano intervenire, evitandogli di finire come Sandei e soci. Senza neppure comprenderne la ragione, oltretutto.

Non vide però intervenire i birri né nessun altro, perché poco dopo il dolore divenne insopportabile. Complice la fatica rimediata nella fuga e lo stato di spossatezza per la febbre, le forze cominciarono ad abbandonarlo. Non seppe mai per quanto tempo i suoi aguzzini avessero girato quello strano pugnale nel suo corpo, perché dopo pochi istanti perse i sensi.

L’ultima cosa che provò, mentre cadeva violentemente nel canale, fu un senso di pace e rilassatezza.