Capitolo 57
Mira, sulle rive del Brenta, nello stesso istante.
Due ore dopo l’Ave Maria.
Lo stuolo di sgherri inviati da Murat Uçar si appostò sul greto del fiume, sotto i rami di un salice piangente. L’erba era umida ma la posizione di favore garantiva una vista chiara sulla villa immersa nell’oscurità.
Erano arrivati a Mira poco prima del tramonto e per non dare nell’occhio era stato necessario raggiungere il luogo a piedi, tra le paludi prima e i palazzi signorili poi. Alla fine, però, erano lì: oltre il grande cancello e il giardino, l’edificio emergeva tra le ombre con le sue colonne di marmo, gli elementi decorativi e gli ovali simmetrici che punteggiavano la facciata. Le uniche luci erano quelle che fuoriuscivano dalle grandi finestre della loggia del primo piano, dove si scorgeva un lampadario acceso.
«La proprietà è molto vasta», riferì uno degli arsenalotti, di ritorno da un giro di perlustrazione intorno alla cinta muraria. «Oltre al corpo patronale, da quella parte c’è la casa del custode, un oratorio e un fienile con la stalla».
«Lei c’è?», domandò il più anziano, un tizio irsuto con una vistosa cicatrice sul viso e fare militaresco. «L’hai vista?».
Il giannizzero scosse il capo. Come i suoi compari, quando non c’era lavoro all’arsenale si guadagnava da vivere con truffe e piccoli furti. Era già conosciuto dalle autorità ed era quella la ragione per la quale era stato reclutato con facilità da Trevisan.
«Non l’ho vista», ammise. «Ma poco fa sono arrivate tre carrozze, dall’altro lato della casa».
«Altri uomini?». Da quando erano appostati erano già arrivati diversi carri, con a bordo decine di persone, tutte con identici abiti scuri. Erano stati dislocati dalla parte opposta del parco. «Come quelli del pomeriggio?».
Lo sgherro mosse il capo su e giù, ma si bloccò subito. «Guardate!», disse, indicando immediatamente con il mento la balconata sul lato anteriore della villa. Qualcuno si era appena affacciato. «Eccola. È lei».
A Venezia, Eliardo fece un respiro profondo. Come gli aveva assicurato la donna, alla fine del corridoio, poggiati su una sedia aveva trovato abiti asciutti per cambiarsi: pantaloni di fustagno, una camicia in lino con ampie maniche e una fusciacca da gondoliere.
I passi convulsi dei suoi inseguitori si erano andati spegnendo mano a mano che procedeva incerto oltre la porta.
«Contate fino a centodue, poi uscite sul campo e andate a destra», gli aveva suggerito la vecchia. Il problema però era un altro: decidere se doveva fidarsi di lei oppure no. Come Rudolf era una delle dipendenti di Madame d’Aumale. Il gigante era la ragione per la quale stava scappando. Come si spiegava invece la disponibilità della donna ad aiutarlo? Non aveva le risposte, ma nel frattempo aveva cominciato ugualmente a contare…
Settanta.
Afferrò il suo portamonete dagli abiti fradici che aveva abbandonato sul pavimento e finì di allacciare la camicia. E nello stesso istante una nuova domanda si fece strada come un punteruolo nella sua mente: come poteva sapere, la donna, che lui sarebbe arrivato bagnato fradicio e proprio da quel sotopòrtego?
Ottanta.
Non aveva nessuna delle risposte. D’altra parte, rimanendo in quello spazio buio e angusto era come un topo in trappola. Se anche nel suggerimento della mendicante ci fosse stato un secondo fine, probabilmente all’aperto avrebbe potuto scappare più facilmente.
Novanta.
Decise. Afferrò la maniglia della porta e proprio allora udì uno scalpiccio concitato. Erano i suoi inseguitori? Trattenne il respiro, giusto in tempo per udirli passare oltre e voltare l’angolo.
Cento. Centouno. Centodue.
Aprì la porta e uscì sul campo rischiarato dalla luna. Svoltò subito a destra, come da istruzioni, e riuscì a vedere le ombre dei suoi inseguitori, che proseguirono senza notarlo dalla parte opposta.
A Mira, Madame d’Aumale era affacciata alla grande porta finestra del balcone. Socchiuse le palpebre, per riuscire a vedere meglio nella penombra. Il Brenta scorreva placido oltre il cancello della villa e i rami delle acacie, eppure qualcosa non andava.
Quella era un’ipotesi che purtroppo aveva preso in considerazione solo in modo marginale, nei suoi calcoli. Ciò che Archita, l’autore del teorema, definiva imponderabile: un evento tanto remoto da non poter essere oggetto di calcoli probabilistici attendibili. Più o meno come il furto dell’Omphalos da parte del suo Francesco…
Verificò meglio tra le ombre. Per quanto occultati dalla vegetazione e sprofondati nell’erba alta, sapeva che c’erano: almeno quattro o cinque ostili. L’ipotesi più probabile era che fossero stati mandati dal turco. Quando aveva elaborato il piano di fuga da Murano non aveva considerato quella variabile: aveva dovuto decidere tutto troppo in fretta e, per dare la precedenza alla gemma, era stata costretta a omettere qualche dettaglio.
Si voltò, guardando verso l’interno della villa, dove gli affreschi del Tiepolo risaltavano alla luce dell’imponente lampadario di cristallo. Per adesso, non sembrava che gli aggressori avessero intenzione di intervenire: probabilmente stavano studiando la strategia migliore. Ciò non escludeva che una loro sortita fosse imminente. Era necessario predisporre un piano alternativo.
Si spostò al tavolo e con una penna d’oca e un calamaio cominciò a vergare lettere e numeri.
Eliardo svoltò in campo Santa Margherita. A quell’ora era piuttosto affollato di popolani che scherzavano raccolti in crocchi rumorosi e di qualche venditore di frìtole.
Superò la Scuola dei Varoteri, l’unico edificio isolato del campo, e si diresse verso i Carmini, per non essere in bella vista.
Ma non sembrava fosse necessario. I suoi inseguitori, una bizzarra mescolanza di birri e arsenalotti che non avevano nulla di raccomandabile, si erano diretti dalla parte opposta.
«Contate fino centodue e andate a destra». Se non lo avesse fatto, se fosse uscito pochi istanti prima o se addirittura fosse andato a sinistra, gli sarebbe finito dritto in braccio. Seguire il consiglio della vecchia l’aveva salvato… per adesso. Ma ora cosa doveva fare?
Si fermò davanti all’ombra della facciata candida dell’ospizio Scrovegni. Le finestre del piano nobile erano aperte per la calura e le luci accese diffondevano un tenue lucore sul selciato.
Una goccia di sudore gli percorse la schiena, sotto la camicia. Mano a mano che il pericolo si allontanava da lui, il dolore al braccio e al costato, sommato ai brividi per le febbri, si faceva più netto. Girò su sé stesso, incerto, ma senza accorgersene andò addosso a un frate.
«Mi scus…», provò a dire. Ma quello lo ignorò, continuando a camminare veloce a testa bassa. Non riuscì a seguirlo con lo sguardo, perché, sistemandosi la fusciacca, che si era spostata con lo scontro, vi trovò qualcosa infilato.
«Ehi», chiamò ancora il frate, che però aumentò il passo senza voltarsi.
Solo al centro del campo, Eliardo ghermì con le dita il piccolo pezzetto di carta pergamena e lo aprì lentamente. Era un messaggio.
Sulla riva del Brenta, i giannizzeri fecero balenare i loro sguardi decisi nell’oscurità.
«In casa sembra sola», osservò il primo, scrutando oltre il parco. Madame D’Aumale si era affacciata brevemente al balcone per poi rientrare nel salone.
«Oltre agli uomini sistemati nella stalla, ci sono solo pochi domestici. Nessuna guardia armata».
L’anziano sfregiato ghignò. «Non ci aspettava… sarà una passeggiata».
Con un gesto della mano diede ordine a due dei suoi compari di muoversi. Questi strisciarono fuori dal greto del fiume e muovendosi come gatti si avvicinarono furtivi al cancello. Tra le mani tenevano attrezzi di metallo, con i quali si misero ad armeggiare sulla serratura.
«Ci siamo», comunicarono poco dopo, sussurrando. «È aperto!».
Eliardo lesse tra sé il biglietto ancora una volta: “QUARTA ORA, BURCHIELLO. SCENDI A MIRA”.
Non c’era molto da interpretare e il frate, a cui forse avrebbe potuto chiedere chiarimenti, si era volatilizzato verso rio de San Barnaba.
Quel messaggio era davvero per lui? Qualcuno stava cercando di aiutarlo?
Non aveva alcuna certezza, se non collegare quello strano invito a quanto era già successo. Provò a razionalizzare: dopo essere fuggito da Rudolf era caduto in acqua ed era stato ripescato da quei brutti ceffi. Fuggito anche da loro gli era venuta in aiuto una delle domestiche di Madame d’Aumale. Era possibile che tutto quanto accaduto fino ad allora avesse l’unico fine di indirizzarlo in qualche luogo? Era possibile che avesse male interpretato le intenzioni di Rudolf?
No. Su quello non c’erano dubbi: Rudolf, con quel suo quadrello acuminato, voleva aprirlo in due come una mela. E Allora? Restava un fatto: se non fosse stato per la mendicante, gli inseguitori della gondola lo avrebbero acciuffato per ben due volte.
Non aveva molta scelta. Non poteva tornare a casa, dove il gigante biondo probabilmente lo stava ancora aspettando, e non poteva andare alla Giudecca da Madame d’Aumale.
Rilesse il messaggio: “QUARTA ORA, BURCHIELLO. SCENDI A MIRA”. Erano passate due o tre ore al massimo dal tramonto: aveva tutto il tempo per raggiungere il molo e decidere lì il da farsi.
Madame d’Aumale si alzò di scatto dal tavolo. Aveva cinque tabelle tra le mani: erano le ipotesi più probabili che era riuscita a elaborare in quel poco tempo.
«Lucia!», chiamò, mentre ondeggiando sul pavimento si muoveva verso lo scalone. Diderot e Voltaire, che fino ad allora erano rimasti accucciati sotto la finestra, la seguirono zampettando sul mosaico veneziano. «Lucia, accompagnami!».
La ragazzina, candelabro tra le mani e viso impassibile, si presentò sulla soglia e si accodò alla padrona. «Eccomi, Madame».
«Gli egiziani sono pronti?», la sferzò lei, scendendo velocemente. L’ampia gonna, rigida sotto il corpetto, volteggiò senza sgualcirsi minimamente.
«Dovrebbero essere sistemati», confermò Lucia, facendo luce. Aveva dato ordine ai domestici di alloggiare i cento egiziani della Giudecca nella stalla due ore prima, quindi ormai dovevano essere in grado di lavorare.
«Andiamo», sospirò la contessa, mentre usciva nel giardino con la ghiaia dei vialetti che scricchiolava sotto i suoi tacchi. «Devo verificare con loro nuovi calcoli e potrei aver bisogno di te».
Proprio in quel momento, i giannizzeri spalancarono il cancello e armi in pugno corsero a testa bassa vero la villa.