Capitolo 71

Piazza di San Marco.

 

Il capitano Van Axel fu il primo a lanciarsi all’inseguimento. Fece scattare i muscoli e con un balzo superò Eliardo e Francesco, immobili al centro della terrazza.

La porticina di servizio da cui era arrivata Madame d’Aumale dava accesso a un budello nero, che sprofondava attorcigliato attorno a un pilastro. Davanti, però, c’erano i corpi di due birri, sgozzati e abbandonati sul pavimento, che ostruivano l’ingresso.

L’esplosione di un lampo verdastro sulla laguna rischiarò il viso stigio di Rudolf: il gigante biondo ora presidiava l’uscita. Se ne stava a gambe larghe come un pugile e muoveva il quadrello su e giù, quasi lo stesse soppesando.

«Lasciatemi passare», ingiunse Van Axel, tendendo il braccio con la pistola.

Per tutta risposta, il gigante si fece sotto, issando la lama come un’ascia.

Van Axel schivò il colpo alla testa una prima volta, ma Rudolf ci riprovò, questa volta puntando alla coscia. Il capitano si scostò, scartando di lato, e contemporaneamente tirò il grilletto. Il cane scattò e la polvere luccicò, facendo esplodere la palla. La detonazione fu appena percepibile, se paragonata alle cannonate dei fuochi che rimbombavano sul broglio, ma il colpo andò a segno.

Rudolf balzò all’indietro, portandosi una mano alla spalla e poggiandosi al parapetto della terrazza. Nel tempo che impiegò a stimare la gravità della ferita, Van Axel era però già scomparso.

 

 

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Annika, scalza e impacciata dall’ampia gonna dell’abito, era riuscita ad arrivare fino al livello della piazza. Adesso era davanti al marmo bianco d’Istria della porta della Carta, concentrata sul campanile. Non c’erano birri, come in effetti era accaduto al suo arrivo, però poco distante diverse guardie di sestiere si assicuravano che non vi fossero disordini.

Voltò a sinistra e si infilò sotto il loggiato di palazzo Ducale. Camminando con passo svelto percorse il lungo porticato gotico, fiancheggiando gli archi rischiarati dai lampioni, e puntò diritta alla riva degli Schiavoni.

Si voltò per assicurarsi di non essere stata seguita. Quanto tempo avrebbe resistito Rudolf? Troppo poco, a quanto pareva: non molto distante, fra i crocchi di patrizi, individuò subito Van Axel, che correva facendosi largo rumorosamente. Dietro di lui c’erano alcuni birri, ma nella confusione non riuscì a stabilire quanti.

Madame d’Aumale si spostò in direzione del leone alato che svettava sulla colonna di sinistra e andò verso la pescaria. Nonostante la folla occupasse ogni pollice quadrato di ogni masegno, il suo abito giallo era troppo appariscente.

Facendosi largo, uscì dalla piazza e puntò diritta al Canal Grande, verso il Fondaco della Farina.

Si voltò ancora, e con sgomento constatò che Van Axel si era avvicinato pericolosamente.

 

 

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Mattio Mellan si era mosso dalla terrazza sopra la basilica subito dopo essersi assicurato che Grimaldi stesse bene. Invece di imboccare la piccola scala a chiocciola era sceso dall’interno della chiesa, subito dietro la quadriga. Era passato in un istante dall’aria torrida della sera estiva, grattata dai rimbombi dei fuochi sulle Procuratie nuove, al silenzio devoto delle navate deserte.

Scese le scale di marmo accompagnato dal ticchettio ritmico dei suoi tacchi e sbucò nel Nartece. L’atmosfera soffusa, che contrastava con il marasma dell’esterno, aveva una colorazione ambrata e un odore di incenso. I colonnati che portavano ai pilastri della cupola sorreggevano soffitti alti, dorati e riccamente decorati con mosaici e dipinti. Il transetto, avvolto nell’ombra, era deserto. Prima di imboccare il portale laterale di Sant’Alipio, lanciò un’ultima occhiata verso il ciborio sopra l’altare maggiore, per assicurarsi che la contessa non fosse rientrata nella basilica. Ma tra la schiera di candele accese non individuò alcun movimento.

Tirò il mantello sulle spalle e varcando l’uscita fu abbracciato dalla piazza in festa rischiarata dalla pioggia di luci.

 

 

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Tra la Salute, sulla sponda opposta del Canal Grande, e il rio di San Moisè, era stato eretto un secondo ponte di barche. Era più corto rispetto a quello del Redentore, ma non per questo meno affollato.

Madame d’Aumale, guardandosi le spalle, lo imboccò, passando a passo spedito su due burchi. I piedi scalzi le dolevano e ora cominciava a sentire la stanchezza.

Si voltò quando era più o meno al centro del Canal Grande, ma Van Axel era ancora troppo vicino. Anche se in quel momento era fermo sulle fondamenta, non ci avrebbe messo molto a individuarla tra la folla.

Setacciò con lo sguardo ciò che aveva davanti: i magazzini della dogana, la punta più orientale del sestiere di Dorsoduro, non erano molto distanti. Se voleva avere speranze di riuscire a ciurmare i suoi inseguitori, doveva raggiungerli al più presto. Si trattava di un gioco di prestigio, lo sapeva, ma confidava che, sul ponte del Redentore, Van Axel non si sarebbe reso conto di quanto sarebbe accaduto.

Procedette con foga, tra i mugugni e i rimproveri dei veneziani fermi sul ponte, e raggiunse il sagrato della chiesa. Il marmo bianco riluceva del barbaglio cangiante dei fuochi e quell’illuminazione temporanea le diede la consapevolezza che il capitano l’aveva vista: adesso lui stava correndo, sobbalzando sul ponte e brandendo la sua pistola.

Non aveva scelta. Sollevò con le mani l’abito e cominciò a correre anche lei, in direzione dello Spirito Santo, dalla parte opposta dell’isola.

 

 

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Van Axel la vide scomparire tra le calli anguste dietro la Salute. Da quella parte, paradossalmente, c’era ancora più confusione. In tutti i campi e i campielli circostanti, i veneziani infatti avevano allestito banchetti. La vista sulla laguna era ostruita dai palazzi ma in compenso il vino scorreva a fiumi…

«Fermatevi», gridò, a indirizzo dell’abito giallo che avanzava spedito nelle anguste calli. O non fu udito o più probabilmente fu ignorato. Il risultato fu che la donna superò un ponticello e si immise sul rio delle Fornase. Quando lei voltò a sinistra e scomparve alla sua vista, si rese conto di dove stava andando.

Con il cuore che gli palpitava fin nelle orecchie, aumentò il passo e procedette fino alla facciata a capanna dello Spirito Santo. Il ponte votivo, titanico nella sua costruzione, cominciava proprio lì. Barche di ogni dimensione, allineate l’una all’altra, costituivano una gigantesca passerella che dondolava leggera al ritmo della laguna fino alla Giudecca. Qualcuno suonava, un gruppetto di zingare ballava, ma per la maggior parte i fedeli e i cittadini erano immobili ad ammirare i foghi. Esattamente come negli ultimi minuti.

Fra le teste che ostruivano il passaggio sull’angusto ponte, il capitano individuò quella di Madame d’Aumale. Il suo abito giallo spiccava come un neo posticcio sul viso candido di una gran signora.

«Lasciate passare!», sbraitò. «Lasciate passare».

Lei era sempre lì. A non più di cento passi. A dispetto di tutta quella fiumana di curiosi, adesso correva procedendo a spintoni.

Un urlo di protesta si levò dalla metà del ponte. La sagoma in legno ondeggiò pericolosamente al chiaro di luna e, dopo un istante, schizzi si sollevarono impetuosi dal canale. Almeno una decina di persone era caduta in acqua, tra urla e imprecazioni. Pur non avendone la certezza, Van Axel ipotizzò fosse stata la contessa che si era fatta largo a spinte. La perdette di vista per il tempo di un respiro, ma la individuò subito dopo. Era ormai giunta all’isola, sui gradini del Redentore, praticamente in braccio al Patriarca.

Van Axel aumentò il passo. La donna adesso, immobile fra alcuni religiosi intenti a officiare chissà quale rito, sembrava spaesata. Non sapeva da che parte scappare.

Quando Van Axel raggiunse la fine del ponte era ancora lì, ai piedi dei gradini che davano accesso alla superba facciata del Palladio.

Si catapultò su di lei con un balzo, nel momento preciso in cui sembrava che avesse deciso la direzione da prendere. Il capitano saltò oltre i passanti e la afferrò per le spalle. Qualcosa, dietro, si rovesciò e si ruppe, ma lui riuscì a trascinarla a terra, rovinando sulla dura pietra. Rotolò poco lontano, cadendo in ginocchio. La donna finì invece gambe all’aria, con i pizzi dell’abito che le scoprirono le gambe nude.

«Siete in arresto!», ruggì, agguantandole un braccio per voltarla in direzione della luce dei lampioni.

E si bloccò.

L’abito era giallo canarino e la donna magra e di bell’aspetto. Però non era Madame d’Aumale.

«E voi chi diavolo siete?», domandò a mezza voce. Ansimando, fece balenare lo sguardo in tutte le direzioni.

«Piacere di conoscervi», si burlò di lui la ragazza, che si ricompose mettendosi seduta per terra. «Mi chiamo Lucia Oldrini».

 

 

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Annika riemerse da sotto il ponte assieme ad altre otto persone, fradice e inviperite per la caduta. Si assicurò che Lucia fosse riuscita nel suo intento e alla fine tirò un sospiro di sollievo. Il gioco di prestigio, lo scambio avvenuto poco prima del tuffo forzato, era stato fulmineo. Anche l’idea di fare indossare alla sua ancella un abito identico al suo era stata premiata.

Si asciugò il viso con il braccio, strinse ciò che aveva in pugno e si diresse a nuoto a una delle gondole che occupavano il lato buio della Giudecca.

 

 

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Più o meno nello stesso istante, sulla terrazza di San Marco, Francesco Grimaldi si tastò il panciotto con le dita. “Scusa”, gli aveva detto Annika, abbracciandolo prima di fuggire. Scusa di cosa, esattamente? Dei torti subiti o di quell’ultimo colpo di teatro?

Il barnabotto controllò meglio alla luce dell’ultimo fuoco artificiale e ne ebbe la certezza: la gemma non era dove l’aveva riposta. Sorrise amaramente. Prima di fuggire, quel diavolo di donna gliel’aveva rubata da sotto il naso.