Capitolo 38

Sestiere Santa Croce, più tardi.

Tardo pomeriggio.

 

La corte di Ca’ Malipiero era un minuscolo quadrilatero nel sestiere di Santa Croce, stretto tra rio Marin e rio di San Giovanni Evangelista. Cinto su tutti i lati da modesti edifici a tre piani, vi si accedeva da un angusto sotopòrtego, che sbucava di fronte a una vera da pozzo.

Ospitava diversi alloggi popolari con gelosie scrostate di colore verde, in quel momento sprangate.

«Bussate a tutte le porte», ordinò Van Axel ai fanti della Quarantìa che lo avevano seguito su ordine di Mellan. «Mostrate a tutti il disegno e vedete cosa vi rispondono».

Erano arrivati in quell’angusta corte grazie alle parole che aveva pronunciato Eliardo, chissà se consapevolmente o meno.

«Il simbolo», aveva detto, annuendo convinto, «somiglia all’arma dei Malipiero». Su quell’aspetto erano arrivati alla stessa conclusione. L’epilogo del ragionamento era però stato nettamente diverso da quello che avevano condotto assieme al Missier Grande e a Padoan: «Non chiedetemi perché, ma le figure sottostanti mi fanno pensare a una corte e a una vera di pozzo… ad esempio quelli della corte di Ca’ Malipiero».

E quelle parole avevano aperto un mondo.

Malipiero.

E se il mezzo volo della nobile famiglia, invece che il palazzo sul Canal Grande, avesse identificato un luogo diverso? Una piccola corte omonima, dalle parti della chiesa di San Giovanni?

C’era di più, se davvero, come aveva sostenuto l’alchimista durante l’interrogatorio, quella era una mappa per trovare una gemma, adesso sapevano anche cosa cercare.

Prima di partire da palazzo Ducale avevano chiesto maggiori spiegazioni a de Broglie sull’oggetto da rinvenire: forma, dimensioni, colore. Lui, purtroppo, aveva rivelato di non conoscerle con esattezza, ma aveva semplicemente detto che lo avrebbero riconosciuto quando l’avessero trovato.

Non potendo fare nulla di più, si erano quindi mossi in forze e, beneficiando di un cielo rossastro al tramonto, avevano raggiunto il sestiere di Santa Croce.

 

 

Simbololeone.png 

 

Van Axel si guardò attorno nella corte, attento a ogni particolare: i rampicanti sui muri, la pavimentazione di pietra levigata dal tempo, le grate alle finestre dei pian terreno. Era estremamente dimesso, con solo qualche fregio a ingentilire gli architravi squadrati dei portoni. In quell’anfratto così modesto e così anonimo, mentre tentava di ritrovare i disegni della mappa, tutto gli ricordava i luoghi della sua adolescenza.

A dispetto delle ambizioni che il padre Edoardo aveva per lui, Lodovico non era infatti cresciuto nello sfarzo del palazzo Soranzo. Invece che nella sua casa natale, era diventato adulto a Cannaregio, allevato dalla nonna materna.

Fin da quando era stato chiaro che le opinioni tra lui e la famiglia erano opposte e inconciliabili, andare via di casa gli era sembrata l’unica scelta percorribile. Il suo piccolo mondo si era trasformato nelle due stanze di sua nonna materna Lina, al 2995 di calle delle Muneghe. La donna viveva da sola, rifiutando sistematicamente il denaro del suocero e dei Van Axel. Si guadagnava da vivere vendendo pozioni e dai più era considerata una vecchia megera o, peggio, una strega.

Il fatto che Eliardo avesse deciso di trasferirsi da lei era un comportamento alquanto bizzarro e disdicevole, che i suoi genitori avevano mal tollerato. Era inconcepibile a parer loro, oltretutto, rinunciare al lusso per vivere tra la povera gente come un plebeo qualunque.

Più volte, negli splendidi anni che il giovane Lodovico aveva trascorso tra i monelli del sestiere, un prete amico di famiglia l’aveva avvicinato. Aveva provato con gli argomenti più vari a convincerlo a tornare a casa, a piegarsi alla volontà di un padre che per il figlio aveva già previsto un futuro radioso.

Ma lui, supportato dai pensieri illuministi che ancora non tutti digerivano, e protetto dalla nonna che era tutt’altro che insana di mente, non aveva mai ceduto. Era rimasto lontano dalla sua famiglia per sette anni, e si era riavvicinato solo quando era diventato diciannovenne, a Montebelluna, in occasione del matrimonio di sua sorella Elena.

In quel frangente, il padre era stato più morbido di quanto si sarebbe atteso. Ormai anziano, la sua felicità nel poterlo riabbracciare era stata più forte delle ambizioni tradite dall’unico figlio maschio. Era stato proprio grazie a lui che a quel ricevimento sfarzoso Lodovico aveva conosciuto il Missier Grande Mattio Mellan. I due, nonostante fossero separati da oltre vent’anni di età, si erano subito trovati in sintonia. Entrambi, seppur non troppo apertamente, credevano nei princìpi di uguaglianza tra gli uomini e nel pensiero dei sofisti. Si trovarono quindi a dissertare della conoscenza fondata sulle potenzialità interiori e di valori universali e naturali quali tolleranza, uguaglianza e libertà.

Fin da quel primo incontro, Lodovico aveva capito che la strada percorsa dal Missier Grande poteva essere anche la sua: forse c’era un modo per servire la Repubblica come voleva il padre, senza contravvenire ai suoi princìpi illuministici.

Negli anni trascorsi nelle calli di Cannaregio aveva imparato a governare le imbarcazioni come un gondoliere qualunque. Per via dei litigi con i coetanei, sapeva anche difendersi a mani nude e con le armi. Il passo verso gli zaffi da barca così non fu troppo traumatico. Con l’aiuto di Mellan, nel frattempo diventato quasi come uno di famiglia, un barba, uno zio, si era donato alla Serenissima. E inaspettatamente, suo padre lo aveva aiutato: il posto di capitano lo aveva ottenuto anche grazie alle ruote che il genitore aveva oliato per lui. Non era diventato un politico, questo era vero, ma il suo posto nella società aveva alla fine convinto anche il vecchio Edoardo.

 

 

Simbololeone.png 

 

«Cercate preziosi, pietre e gemme che i popolani di qui non potrebbero permettersi», consigliò Van Axel ai birri, che stavano bussando ai portoni uno a uno.

La corte era piuttosto piccola, e l’operazione durò poco. Ci vivevano due sorelle con i relativi mariti, entrambi arsenalotti ed entrambi ancora non rincasati, e un anziano vedovo prestinaio.

Tutte le case erano anguste, due o tre stanze al massimo, suddivise su più piani. In nessuna c’era qualcosa che sembrasse il prezioso di una contessa e in nessuna il disegno rivelò particolari interessanti. Solo in un’abitazione gli uomini di Van Axel trovarono un ciondolo d’oro, ma non conteneva pietre.

«Era di mia moglie», aveva piagnucolato un vecchio, con l’aria corrucciata e il viso terrorizzato.

A differenza delle case delle due sorelle, la sua era più spaziosa e ampia. Molto grande, a dire la verità, per un uomo solo. Ciononostante, neanche tra quelle stanze che i birri avevano messo a soqquadro, avevano trovato nulla di vagamente somigliante né ai disegni né alla pietra.

«Andiamo», ordinò alla fine Van Axel, deluso in volto. Ormai si era fatto buio e i suoi armigeri gli si pararono d’innanzi, pendendo quasi dalle sue labbra. «O l’alchimista è a conoscenza di qualcosa che non ci ha detto, oppure semplicemente si sbaglia. Il posto non è questo».

Uscirono dalle fondamenta passando attraverso il tetro sotopòrtego portandosi dietro le lanterne, che nel frattempo avevano acceso. Con loro si spensero i rumori delle armi e le uniche luci che rischiaravano la corte.

Non si accorsero che da una delle finestre del secondo piano, al buio in una camera segreta ricavata in una soffitta, un uomo li aveva osservati per tutto il tempo.