Capitolo 8

Palazzo Ducale, domenica 12 luglio 1761.

Poco dopo il sorgere del sole.

 

Seduto alla grande scrivania, con i gomiti poggiati e le mani intrecciate davanti al mento, il Missier Grande prese a leggere una serie di imbreviature.

Era sempre stato un uomo mattutino, e ancora di più lo era da quando aveva superato i cinquant’anni. Dormiva poche ore per notte, piluccava appena il cibo, non giocava d’azzardo, non beveva e, a quanto si diceva, non era incline alla compagnia femminile. Interpretava il suo ruolo in modo draconiano e anche per questo i suoi uomini affermavano che fosse dedito unicamente al satellizio.

Tra ufficiali, birri e zaffi di barca, Mattio Mellan aveva il peso di comandare quasi duemila militari: troppo pochi per garantire la pubblica tranquillità in città; troppi se si considerava il complesso sistema giudiziario della Serenissima, plasmato da secoli di storia.

I tribunali che presidiavano i vari aspetti della vita civile e penale erano infatti quasi centocinquanta, con competenze che spesso si sovrapponevano e si mescolavano. Il più importante era la Quarantìa, che si divideva in Quarantìa criminale e Quarantìa civile, la quale a sua volta si articolava in Quarantìa nuova e vecchia. C’erano poi gli Avogadori de comùn e gli Avogadori civili, a loro volta distinti in Avogadori vecchi, nuovi e nuovissimi. Si contavano inoltre sei corti subalterne, il Collegio dei savi, i giudici del Piovègo, gli Esecutori contro la bestemmia, i Signori della notte, i Cinque alla pace e svariate altre decine di Corti.

Tutte le magistrature, nel bene o nel male, si controllavano a vicenda e disponevano di competenze specifiche. Ciascuna, per fare eseguire le sue ordinanze, si poteva inoltre avvalere di ministri esecutivi: i temuti birri, che rispondevano, per gerarchia o anche solo per autorità, al Missier Grande.

 

 

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Mellan inforcò un piccolo paio d’occhiali in corno e si concentrò sul primo documento ingiallito, appena recapitatogli dal cancelliere.

A quell’ora e di domenica il Palazzo era semivuoto e, tenendo le porte aperte, si poteva godere di una piacevole brezza che si incuneava nelle austere stanze. Fuori dalla finestra, in direzione dell’Arsenale, si scorgevano le vele delle navi che incrociavano nel bacino di San Marco.

«E dunque non è la prima volta», commentò a indirizzo del cancelliere, senza distrarsi dallo scritto. Fin dalla mattina precedente, insospettito dalla vicenda di Madame d’Aumale, aveva dato ordine di reperire tutti i documenti che la riguardavano. Poiché i rogiti notarili erano affidati alla tutela del doge, che fungeva da garante del rispetto dei diritti dei privati, la ricerca non era stata molto complessa. Tutti gli atti erano depositati nella Cancelleria inferiore, al piano terra del Palazzo, ed era stato quindi sufficiente trasportarli per due piani di scale. «Un solo atto. Non c’è altro?»

«Intestata a nome della contessa, c’è solo quella scrittura, eccellenza». Il cancelliere Padoan, un omino pingue vestito di nero come si confaceva agli uomini di Stato, si umettò le labbra. «Abbiamo chiesto anche alla Corporazione, che a volte per problemi di spazio ci aiuta a custodire le scritture. Confermano che esiste solo quel documento».

Mellan annuì. «Palazzo Grimaldi, quindi. Oggi ribattezzato Ca’ d’Aumale». Pensieroso, consultò il secondo plico di imbreviature sistemate sulla grande scrivania. «Non è la prima volta per la nostra contessa; In passato, quindi, si era già burlata del precedente proprietario…».

«Il povero nobiluomo Paolo Grimaldi».

«Ha fatto ulteriori verifiche sul contratto di Gerolamo Venier?»

«Naturalmente, eccellenza». Padoan gli porse una serie di fogli rilegati. «Il contratto che fu sottoscritto da Grimaldi è del tutto simile a quello dell’illustrissimo Venier».

«Potrei azzardare che, come nel caso di ser Gerolamo, è stato stipulato pochi giorni prima della morte?»

«È così infatti, eccellenza. Esattamente come con Venier». Padoan fece una pausa di circostanza, fissando i due grandi busti che incorniciavano la scrivania di Mellan. «Pur tuttavia, c’è una sottile differenza: la morte del senatore Grimaldi fu catalogata come naturale».

Mellan ricordava la vicenda, risalente ad almeno cinque anni prima. Paolo Grimaldi, il patriarca della famiglia, una carriera da ambasciatore della Serenissima, era deceduto improvvisamente nel suo letto, si disse per le febbri. Donna Agnese, la vedova, aveva lasciato Venezia in grandi ristrettezze e il figlio Francesco, a quanto ne sapeva, viveva tutt’ora di espedienti.

«Come nel caso di Venier, Grimaldi si era accordato con Madame d’Aumale», aggiunse Padoan. «La contessa si era offerta di pagare alcuni debiti con l’Oriente e in cambio alla sua morte avrebbe ricevuto il palazzo».

«E come con Venier, la morte di Grimaldi era stata improvvisa e di poco successiva alla firma di tale accordo».

«Così pare, eccellenza». Il cancelliere emise un flebile sospiro. «Resterebbe da capire se, davvero, a questo punto, Paolo Grimaldi morì per cause naturali».

«O è come voi dite, cancelliere, oppure questa Madame d’Aumale dispone dei privilegi del cielo».

Padoan, conoscendo il Missier Grande, trattenne un’espressione d’ilarità.

«Vedo dal vostro sorriso che la pensate come me: non riesco a immaginare la contessa come cultrice dell’Occulto, temo quindi che questa sia una vicenda prettamente terrena. Non sappiamo ancora come, ma è chiaro che questa Madame d’Aumale ha a che fare con le morti di Grimaldi e di Venier». Sistemando la parrucca incipriata d’argento, si alzò e girò attorno al tavolo, dando le spalle al cancelliere. «Comunque è tutto. Vi ringrazio, potete andare».

Padoan, che non attendeva altro, si produsse in un inchino e non perse tempo a uscire. Il rimbombo dei suoi tacchi si spense poco dopo tra gli archi e il marmo della Scala dei censori.

Nei minuti successivi il Missier Grande prese a misurare la stanza con grandi passi, leggendo un secondo fascicolo. Lo aveva fatto raccogliere in brevissimo tempo, sguinzagliando per le calli cittadine il suo folto nugolo di confidenti. Alcune spiate riguardavano il nobiluomo che la vedova di Venier aveva accusato dell’omicidio: Eliardo de Broglie. Risultava essere un sedicente alchimista, non era rientrato nella sua abitazione e si era rifugiato in una bettola. Non sembrava avesse intenzione di fuggire e quindi Mellan – che non lo riteneva colpevole – decise di rimandare a un momento successivo un colloquio con lui. La sua attenzione era concentrata su altro: le rimanenti testimonianze, la maggior parte invero, erano infatti di vicini e conoscenti di Madame d’Aumale e ne ricostruivano la storia.

Tornò alla finestra e si affacciò sul rio di Palazzo, di fronte alle Prigioni. Il sole era già alto e la sua ombra tagliava in due le polifore dei palazzi verso rio San Zulian: due nette sfumature che gli ricordavano l’eterna lotta tra il bene e il male.

Mentre ammirava la chiesa di San Giovanni Nuovo, dietro alle impalcature di un cantiere, ripercorse mentalmente le vicende della contessa.

Vedova di un certo Philippe Brûlart, conte d’Aumale, ricco illuminista francese, si era trasferita con una grande fortuna a Venezia nel 1755. Non si aveva alcuna notizia sulla famiglia d’origine e sulla causa di morte del marito. I fatti successivi erano però meglio documentati: nel ’56 aveva conosciuto Grimaldi e a causa della di lui morte aveva ereditato le sue sostanze, lasciando sul lastrico i suoi familiari. Cinque anni più tardi aveva riservato la stessa sorte a Gerolamo Venier. Se esistevano fatti analoghi nel periodo intercorrente tra la morte di Grimaldi e Venier, le spie non li avevano individuati.

«Barba». Una voce alla porta lo strappò dai suoi pensieri. «Zio, ci sono novità, purtroppo».

Il Missier Grande si voltò e inquadrò il capitano degli zaffi, Lodovico Van Axel. Era privo di parrucca, con il tricorno in mano e i capelli castani pettinati all’indietro. Aveva una viso pulito e anche in quel frangente sfoderava il suo piglio fiero e arguto.

«Questa notte è occorsa una disgrazia: un giovane, un certo Zuanne Sandei, è stato accoltellato». S’interruppe, per verificare se quel nome provocasse una qualche reazione del Missier Grande. Non fu così, perché Mellan restò impassibile. «Sandei era il figlio di un mio ufficiale», spiegò.

«Ora rammento. Sarebbe dovuto diventare uno dei tuoi uomini». Il Missier Grande si riferiva alla consuetudine per la quale diventare zaffi spesso era un obbligo imposto dall’essere figli, nipoti o parenti dei tutori dell’ordine. Gli stessi cognomi dei membri, che risiedevano di solito a Dorsoduro nelle contrade di San Nicolò e San Angelo Raffaele, ne erano testimonianza. Sandei era uno di quei cognomi.

«Siamo stati chiamati da una mendicante, che ha raccontato di aver visto uno strano individuo…».

«Che tipo di individuo? Parlate senza timore».

«Un levantino, zio. Pare che ad accoltellarlo – quasi a tagliarlo in due, a dire il vero – sia stato un ottomano, con una specie di daga».

«Avete già informato gli inquisitori di Stato?».

Van Axel fece cenno di no con il capo e un ciuffo ribaldo gli cadde sulla fronte. «Non ancora, zio».

Il Missier Grande s’irrigidì. La legge proibiva ai veneziani di avere frequentazioni con i foresti, gli stranieri. Se l’assassino era davvero ottomano, il Consiglio dei dieci e i tre inquisitori di Stato andavano assolutamente coinvolti.

«Non l’ho ancora fatto, zio, perché c’è qualcosa che dovreste vedere».

«E cosa, di grazia?»

«Qualcosa che ha a che fare con Madame d’Aumale».