Capitolo 28

Palazzo Ducale. Contemporaneamente.

Primo pomeriggio.

 

Francesco Loredan, il centosedicesimo doge della Repubblica di Venezia, aveva l’apparenza di un cadavere che respira. Fiaccato dalla malattia che l’aveva colpito ormai da molti mesi, era comunque in piedi, con le insegne della Repubblica e il corno ducale in testa.

«Serenissimo principe», si inchinò Mellan. Poiché fuori diluviava, si era dovuto cambiare d’abito e aveva indossato la lunga toga nera con lo strascico. «Vi ringrazio per il tempo che mi dedicate».

«Mi dicono che si tratta di un affare delicato».

Mellan annuì. Per riuscire a ottenere udienza privata dal doge, era stato costretto a scavalcare tre gentiluomini, che attendevano fin da quella mattina di essere ricevuti. Loredan era così debilitato che aveva ridotto al minimo gli incontri nella Sala dello scudo e, quando poteva, li spostava in ambienti più piccoli. Per l’occasione aveva deciso di ricevere il Missier Grande nella splendida Sala degli stucchi, proprio di fronte alle sue stanze private.

«Ho ritenuto indispensabile conferire con voi, principe, perché dopo la morte di ser Gerolamo Venier, l’indagine ha rivelato alcuni punti delicati».

Loredan indicò al suo ospite di accomodarsi davanti al grande camino. Gli stucchi che impreziosivano la volta fiammeggiarono alla luce di un fulmine e parvero talmente chiari che a confronto la sua pelle pallida sembrava marmo.

«Siete riusciti a trovare l’amante della moglie di Venier? Le voci corrono: è vero che questa vicenda ha a che fare con uno dei finanziatori di Marco Foscarini?». La parola finanziatori fu pronunciata con una punta di livore, e il doge ne aveva ben d’onde. Foscarini, infatti, già da più di un anno aveva cominciato a investire il suo patrimonio per comprarsi sufficienti consensi per succedere a Loredan nel Dogato. Non che si trattasse di un unicum assoluto: poiché tutti i patrizi del Maggior Consiglio, se estratti a sorte, potevano diventare elettori, i barnabotti, i nobili impoveriti, spesso usavano il malvezzo di vendere il proprio voto. L’aspetto imbarazzante della vicenda era però un altro: questa volta la compravendita – che di solito iniziava pudicamente dopo la morte del doge in carica – stava avvenendo invece alla luce del sole, mentre, seppur malato, il principe era ancora in vita.

«Si chiama Eliardo de Broglie», affermò Mellan, «ma con tutta sincerità i maggiori sospetti non sono concentrati su di lui».

Il doge si produsse in un’espressione stupita, ma non interruppe il comandante del satellizio.

«Alla morte di Venier», chiosò quest’ultimo, «si uniscono le incertezze legate alla famiglia dei Malipiero e soprattutto ad altri due delitti».

«Oltre alla contessa d’Aumale, naturalmente».

«La conoscete quindi?»

«Sono il primo servitore della Repubblica, Missier Grande: seppur io conduca una vita da recluso entro queste mura, il mio compito è sapere le cose…».

Mellan annuì. Ricevimenti e incontri mondani a parte, il doge aveva in effetti poche occasioni di uscire da Palazzo. Le uniche erano gli eventi ufficiali, come l’imminente Festa del Redentore o lo Sposalizio del mare, a cui assisteva dal Bucintoro, la sua imbarcazione rivestita d’oro.

«La vicenda della contessa in effetti mi fa sorgere qualche interrogativo: seppur supportata da documenti ineccepibili è alquanto singolare che erediti la fortuna di Venier». Mellan, che aveva portato con sé un’imbreviatura, la mostrò al doge. «Non è neppure la prima volta, invero, che la nobile francese eredita beni da patrizi che muoiono poco dopo la stipula».

«Grimaldi».

«Esattamente: Paolo Grimaldi ebbe la stessa sorte».

Il doge tacque per un tempo talmente lungo che Mellan pensò si fosse addormentato. Il silenzio fu riempito solo dalla pioggia che scrosciava sui vetri. «E come sono collegate le altre due morti con quella di ser Venier?», si informò poi, stancamente.

«Non lo sono in effetti, e forse sbaglio a credere che lo siano. Eppure, tuttavia, mi par di vedere una tela unica tessuta dagli attori coinvolti, che collega una morte alle altre…». Non convinto di essere stato persuasivo a illustrare quella che per lui era poco più di un’impressione, decise di spiegarla meglio: «I nomi ricorrenti sono sempre gli stessi: de Broglie, Francesco Grimaldi e ovviamente Madame d’Aumale. Il primo è legato a Cristina Venier e conosceva la seconda vittima, Sandei, che a sua volta lavorava per la contessa. La terza vittima, uno speziale, è stata invece uccisa, pare, dalla stessa mano e con la stessa daga turca della seconda… daga che abbiamo ritrovato».

Fissando l’effige del doge Antonio Priuli che addobbava il camino, Loredan scosse il capo. «Riflessioni interessanti, le vostre, tuttavia mi pare abbiate ancora molti pezzi del mosaico da collocare; ho sentito parlare anche di turchi e del fatto che gli omicidi potrebbero essere legati a questioni di spionaggio».

«È così infatti. È proprio questa la ragione per cui vi ho chiesto udienza, principe. Se gli inquisitori si interessassero del caso, di certo perderemmo la visione d’insieme». Mellan si schiarì la voce. «Se, come credo, i delitti sono in qualche modo uniti, prima di trasferire loro le incombenze, vorrei arrivare al dunque e assicurare alla giustizia il colpevole».

Il doge rimase impassibile, meditabondo. Poi porse a sua volta un documento che si era fatto preparare prima dell’arrivo del ministro di Giustizia. «Gli inquisitori sono già coinvolti. Guardate».

Mellan cominciò a leggere e nelle nebbie dell’incertezza gli parve subito di capire con cosa aveva a che fare. Il verbale che aveva davanti proveniva da palazzo dei Camerlenghi ed era a firma di un certo Trevisan. Era relativo a una perquisizione su uno sciabecco, il Mısır Piramitleri, avvenuta il giorno precedente.

«L’armatore è un turco di nome Murat Uçar», spiegò il doge, «e i confidenti degli inquisitori hanno segnalato la sua presenza nel Bacino ormai da tre settimane».

«Trasporta caffè?», domandò, sorpreso. I turchi, con le loro politiche commerciali a danno dei cristiani, erano i principali responsabili dell’esponenziale aumento del prezzo dei preziosi chicchi. Era quantomeno singolare che fosse proprio un turco a importarlo a Venezia.

«Così pare… Per i registri di carico proviene dalla Dalmazia e da Costantinopoli. Ma Uçar, che è stato notato più volte in città, non ha mai provato a vendere la sua merce. Più confidenti lo dicono invece in procinto di acquistare qualcosa di molto prezioso».

Mentre rimuginava sul nome del mercantile e ripensava alle decorazioni della daga ritrovata, gli tornarono in mente anche le parole della lettera anonima: “Solo credendo, potrete salvare le sorti della nostra amata Repubblica”. Qual era il minacciato pericolo per lo Stato? Murat Uçar poteva in qualche modo rappresentare il collegamento che ancora mancava?

«Che tipo di oggetto, Sua Serenità? E da chi lo starebbe acquistando?».

La maschera cupa del doge, rischiarata da un altro fulmine, si fece dubbiosa. «Questo sta a lei scoprirlo, Missier Grande: la daga di cui mi avete parlato potrebbe essere però un buon motivo per parlare con Uçar…».

Mellan tirò un sospiro di sollievo: dal tono del principe, nonostante gli inquisitori fossero già coinvolti, era chiaro che almeno per adesso a capo dell’indagine restava lui. Si trattava di un attestato di stima nei suoi confronti, oppure di malcelata sfiducia nei confronti del triunvirato?

«Naturalmente», rassicurò il doge, «proprio mentre stiamo parlando, gli uomini agli ordini del capitano Van Axel stanno verificando che l’arma del delitto Sandei sia proprio quella trovata. Se sarà così, prima di importunare il nostro gradito ospite turco, ci assicureremo anche che sia riconducibile a lui».

Francesco Loredan, soddisfatto, lasciò trascorrere qualche attimo e poi, con fatica, si alzò in piedi per congedare il suo ospite.

«La questione è alquanto delicata, soprattutto di questi tempi», concluse, prima di voltare le spalle. «Raccomando diplomazia».