Capitolo 44
Palazzo Malipiero, sestiere San Marco. La stessa sera.
Tre ore dopo il tramonto.
I saloni della festa erano un tripudio di luci sfolgoranti.
Il pòrtego, illuminato a giorno dalle fiamme danzanti di tre splendidi lampadari di Murano, era stato destinato a sala da ballo: le eleganti dame, che sfoggiavano ampie gonne, pizzi, broccati, e parrucche sfavillanti roteavano con grazia, formando figure geometriche. I cavalieri, tutti in marsina tirata a lucido, calze di seta e scarpe con fibbie brillanti, chiedevano invece le loro mani, in un giubilo di movimenti a tempo di musica.
Nei saloni attigui, anch’essi stipati di nobili che discutevano, sorridevano e chiacchieravano amabilmente, erano stati disposti i buffet. Quello a sinistra con le cibarie salate, che su enormi piatti d’argento diffondevano i loro aromi di ostriche, storioni, primizie di verdure, selvaggina e insalate aromatiche. Quello a destra, un salotto sulle tinte del rosso, era dominato invece dai dolci: confetture di ogni tipo e colore, biscotti, pasticcini e gelati resi soffici da ghiaccio tritato. E poi c’era Champagne francese, moscato, malvasia e altre decine di brocche e bottiglie tintinnanti, maneggiate con cura da domestici in livrea.
A dispetto del fatto che gli ospiti fossero mascherati, tutti sapevano chi erano tutti. Erano presenti rappresentanti delle famiglie più facoltose, dell’alta società e anche del mondo dello spettacolo. Il crocchio più affollato era quello attorno al drammaturgo Carlo Goldoni, che intratteneva gli ospiti con le sue facezie. C’erano però anche diversi pittori affermati come Giovanbattista Tiepolo, di passaggio a Venezia da Madrid, dove Carlo III gli aveva chiesto di affrescare le sale del nuovo Palazzo Reale.
La spia Cesare Trevisan, a differenza degli altri, se ne stava da sola, in piedi tra la sala da ballo gremita e il tavolo con i liquori. Sorrideva sotto la bauta e, tenendo un calice tra le dita, scrutava gli ospiti uno a uno. Aveva già individuato diverse note cortigiane e qualche funzionario della Repubblica. Anche la festeggiata, la padrona di casa, gli era passata accanto un paio di volte e lui si era adoperato in inchini teatrali, senza peraltro che lei sapesse chi fosse.
Si fece riempire il bicchiere e saltellando sul pavimento lucente si spostò nella sala da ballo, dove la grande polifora era uno specchio traslucido di luci e colori. Sapeva per certo che Madame d’Aumale era tra gli invitati, perché così gli era stato riferito dalle sue fonti a Palazzo. Ciò che non sapeva era se fosse già arrivata e quali fossero le sue reali intenzioni… Si disegnò un sorriso sulle labbra e chiese di ballare a una dama grassottella, che sfoggiava un inopportuno ombrellino parasole bianco di merletto.
A pochi passi di distanza, anche Mattio Mellan era alle prese con un bicchiere di Champagne. Calato in un abito elegantissimo nero, con galloni e pizzi dorati alle maniche, andò incontro a Matilde Malipiero.
«Siete riuscito a venire?», gli sorrise, raggiante, la signora. «Me ne rallegro».
«Non potevo certo mancare alla festa più importante degli ultimi anni». Le baciò il dorso della mano inanellata, riempiendo le narici di un buon profumo di gelsomino. «Vi faccio i miei migliori auguri».
«Avete già incontrato gli altri ospiti?».
Mellan annuì. «Ci sono proprio tutti, mi pare». Così dicendo ammirò le forme aggraziate di alcune dame in particolare. Non aveva ancora individuato il motivo principale per il quale era lì, ma era assolutamente certo che lei sarebbe arrivata.
«Avete assaggiato la pernice?», domandò ancora la padrona di casa, dondolando il busto a tempo di musica.
Aveva sessant’anni, si ritrovò a pensare Mellan, ma non li dimostrava affatto. Forse era l’acconciatura curata, il belletto impeccabile, o le labbra rosse come il sangue. Oppure poteva essere il sobrio abito verde acqua, che da una parte metteva in risalto i fianchi stretti e dall’altra un seno prosperoso. Qualunque fosse la ragione, senza quasi rifletterci, Mellan si ritrovò a fare un rapido calcolo della differenza di età: sette anni. Non era poi così tanto…
«Sì. L’ho assaggiata», le rispose. «Ottima, Madame».
«Chiamatemi pure Matilde».
Lui inchinò la testa. «Bene, Matilde, allora mi concederebbe l’onore di un ballo?».
La padrona di casa si illuminò come una stella. Tese le dita affusolate e sorretta dal Missier Grande si addentrò nel pòrtego affollato.
Un istante più tardi, salendo lo scalone, un fiero notaio De Gennaro si rivolse alla sua accompagnatrice.
«Devo ammettere che la vostra richiesta mi ha stupito, contessa». Stretto nella sua marsina la fissò ancora una volta. Sapeva che Madame d’Aumale era una bella donna, ma non aveva mai osato guardarla sotto quella luce fino alla chiamata della mattina.
«Vi andrebbe di farmi da accompagnatore?», gli aveva chiesto la nobildonna, con inusuale sfrontatezza.
Le farfalle nello stomaco del notaio avevano cominciato a svolazzare come angeli. Per un istante, aveva persino perso la cognizione del tempo e dello spazio. Non badò al fatto che quella richiesta avrebbe potuto farlo apparire come un cicisbeo. Il cosiddetto “cavalier servente”, figura abbastanza diffusa in città – ben radicata in società e accettata di buon grado – era considerato non molto più che un dipendente: un gentiluomo sì, spesso di cultura e bell’aspetto, ma che aveva l’incarico di fare compagnia e scortare le dame sposate a eventi mondani e feste. Più o meno quello che sarebbe toccato a lui… sennonché, la cosa non gli interessava. «Sarebbe per me un grande onore, Madame», aveva quindi balbettato, orgoglioso come un bambino.
Così, rientrato nel suo studio, aveva scritto a Matilde Malipiero per assicurarsi che trattasse la contessa con il dovuto rispetto. E adesso era lì, con la donna più avvenente con la quale avesse mai trascorso del tempo.
La osservò dal basso, visto che lei era più alta di lui di tutta la testa, e non poté far altro che ammirarla: lo splendido abito damascato color acquamarina le cadeva alla perfezione, con sbuffi alle spalle. Il corpetto aderente al caraco, con un motivo floreale di passamaneria dorata, le fasciava splendidamente la vita e sosteneva un’ampia gonna. Anche l’acconciatura non passava inosservata: una parrucca pomposa e incipriata, che sobbalzava a ogni gradino, abbellita da fiori e piume di struzzo.
«Siete un uomo simpatico, Arturo», lo sferzò lei, lasciandogli il braccio non appena furono entrati nel salone gremito di dame e gentiluomini. «Ma per adesso non fatevi strane idee».
Si avvicinò alla schiera di nobili e, incurante degli sguardi curiosi, come un cane da caccia cominciò a guardare in giro, in cerca di indizi sul disegno. Rudolf l’aveva accompagnata sino al portale d’acqua, e su suo preciso ordine era rimasto sulla caorlina ad attenderla assieme ai rematori, nel caso in cui avesse trovato qualcosa.
«Signori e signore. Dame e cavalieri». La padrona di casa, dal centro della sala, attirò l’attenzione picchiettando un coltello su un calice. La musica da camera cessò. «Avvicinatevi un momento, per favore».
Intorno a lei si formò un capannello, così Madame d’Aumale ne approfittò per affacciarsi alla polifora, dalla quale il Canal Grande rischiarato dalla luna appariva magnifico.
«So che tutti voi siete ansiosi per i giochi di fuoco che ci aspettano tra due giorni, alla Festa del Redentore». Matilde Malipiero attese che calasse il silenzio. «Questa sera però ho una sorpresa per voi. Sapete, i sessant’anni non capitano tutti i giorni…».
Un mormorio di risolini e di “oh-oh” di ammirazione si sollevò nella sala. Qualcuno, probabilmente Goldoni, sfoderò anche una battuta spiritosa, asserendo che la donna avesse venti anni di meno.
«Ebbene», continuò lei, «questa sera vi concederò un anticipo: sono qui con noi i maestri Ruggeri di Bologna, che ci allieteranno con i foghi. Uno spettacolo pirotecnico tutto per noi».
Il rappresentante dei maestri accennò un inchino teatrale e poi allargò le braccia per ringraziare. Un applauso convinto sovrastò la voce della padrona di casa, che terminati quei convenevoli fece appena in tempo a dare l’ultima indicazione: «Spostiamoci alle finestre… e godiamoci lo spettacolo».
Non tutti gli ospiti riuscirono a guadagnare una posizione di favore, ma Madame d’Aumale sì. Quando i primi bagliori si fecero strada tra le calli e cominciarono a illuminare le acque del Canal Grande, lei era in prima fila. Dalla sua posizione si godette un gioco di luci sfolgoranti, una morbida pioggia di scintille che cadeva come capelli dorati sui palazzi di marmo. I riflessi sull’acqua, tra uno scoppio e l’altro, erano tali che nonostante il buio la contessa individuò la sua caorlina ormeggiata a una palina. E in quel preciso istante il mondo si fermò.
Deglutì, fissando il riflesso di palazzo Malipiero ondeggiare sul mare come un dipinto. I tre piani erano rovesciati in uno strano acquarello in lento movimento. Tutto era sottolineato dalla luce dei fuochi, che enfatizzava un dettaglio preciso della facciata. Il secondo piano… la polifora… il mezzanino… e poi i due portali d’acqua, disposti secondo un ordine ben preciso: una briccola, un portale, un’altra briccola, un altro portale.
Finalmente aveva capito.