Capitolo 32
Ca’ d’Aumale, sestiere San Marco. Quella sera stessa.
Due ore dopo l’Ave Maria.
«Ne siete certo?».
Seduta allo scrittoio intagliato della biblioteca, Madame d’Aumale si rivolse al fidato Rudolf.
L’uomo, illuminato dalle fiammelle dell’unico candelabro acceso, mostrò gli incisivi marci e annuì vigorosamente. Era abituato a parlare poco e solo se era strettamente necessario. Soprattutto, quando lo faceva, preferiva limitarsi a monosillabi. Non che fosse incapace di proferire parola, conosceva infatti tre lingue: ciò che lo frenava era una scorza di rudezza, figlia di un’esistenza nient’affatto facile.
Nato in Slesia nel 1727, all’età di soli tredici anni si era trovato costretto a combattere contro l’esercito di Federico II, re di Prussia. Fino a una mattina del 1740, che ricordava come fosse del giorno precedente, la sua vita era stata quella di un ragazzo normale. Assisteva il padre maniscalco e aiutava la famiglia come poteva. Da un giorno all’altro però il suo piccolo mondo era stato stravolto: si era trovato improvvisamente orfano, in una terra occupata da un esercito di quasi centomila soldati. Non c’erano state avvisaglie che lasciassero presagire l’invasione dei prussiani e neppure una dichiarazione di guerra. Eppure, i territori in cui aveva vissuto si erano trasformati improvvisamente in un campo di battaglia con migliaia di morti.
Rudolf, scampato per miracolo al genocidio della sua famiglia, aveva così giurato vendetta agli invasori; aveva imbracciato un moschetto e si era schierato dalla parte della giovane Maria Teresa, arciduchessa d’Austria. L’epilogo però era stato tutt’altro che roseo: l’aprile successivo, nella cruenta battaglia di Mollwitz, l’esercito austriaco era stato sonoramente sconfitto e lui gravemente ferito.
Trovato in fin di vita sul campo, grazie alla sua imponente corporatura era riuscito a rimettersi in sesto. Integro nel fisico, l’aver visto morire molti dei suoi cari l’aveva però fatto cadere in una grave depressione; proprio in quei giorni bui aveva tuttavia conosciuto la giovane Simone, figlia di uno dei dottori di battaglia. Non era passato molto tempo che i due si erano innamorati e sposati.
Nel frattempo la guerra di successione al trono degli Asburgo si era allargata ben oltre i confini della Slesia e la coppia aveva quindi deciso di fuggire in Francia. Ma per la provvidenza Rudolf non poteva avere una vita facile e felice: nel 1745, dopo soli due anni di matrimonio, Simone era morta dando alla luce il loro primo figlio, che era sopravvissuto alla madre soltanto per una notte.
Fu quella l’ultima volta in cui Rudolf parlò spontaneamente. Non c’era nulla che valesse la pena dire. Nulla, credeva, che rendesse la sua esistenza degna di essere vissuta; si sbagliava: per uno strano scherzo del destino, nel periodo più nero della sua vita, un incontro casuale ne aveva rivoltato il corso. Ad Amboise, sulla Loira, aveva infatti trovato un lavoro come maniscalco presso il nobile d’Aumale e grazie a lui aveva conosciuto la contessa sua moglie. La personalità perversa e magnetica della donna l’aveva attratto e risucchiato e da quel momento le loro strade erano scorse parallele. Il piacere per le ciarle non gli era però mai più tornato.
«Dunque il Missier Grande è stato dal turco», ripeté Annika, beffarda. Era visibilmente soddisfatta: aveva vagliato numerose possibilità e l’ipotesi più probabile – non l’unica a dire il vero – era che dietro il furto dell’Omphalos ci fosse proprio Murat Uçar. «Per adesso ce lo siamo tolti di torno. Sei stato bravo».
Rudolf gongolò, o almeno così le parse alla luce delle candele mosse dall’aria proveniente dalla polifora aperta. Ciò che aveva fatto rappresentava la summa dei compiti “speciali” che svolgeva per lei. Il motivo principale per il quale, ancora dopo quindici anni, continuava a servirla.
«Resta da capire se il turco stia fingendo o meno», commentò ancora la contessa, più per sé stessa che per il suo collaboratore. Tirò a sé una pila di fogli e li osservò come fossero stati testi biblici. A un certo punto cominciò a scrivere, vergando righe incrociate su una pergamena bianca. «Più ci rifletto, però, più lo ritengo improbabile: non sarebbe ancora qui se avesse ottenuto ciò che vuole».
Intinse la penna d’oca nell’inchiostro e all’interno di ogni cella inserì ossessivamente dei numeri. Non convinta, ne cancellò alcuni per poi scriverli di nuovo.
«Francesco. Dobbiamo trovare Francesco», mormorò alla fine, frustrata. Si alzò in piedi uscendo dal cono di luce e cominciò a carezzare i fregi sui dorsi dorati dei libri sugli scaffali. «Avete avuto notizie?».
Rudolf accennò un no con la testa. Nessuno sapeva dove fosse il bibliotecario. Ormai erano diversi giorni che Francesco Grimaldi era assente e non aveva lasciato messaggi.
«Potrebbe essere in pericolo!», decretò la contessa, lanciando un’occhiata obliqua ai suoi appunti. Ma più provava a escludere quell’ipotesi, più cominciava a considerarla una variabile sfavorevole. E se invece che vittima di Sandei, Francesco fosse stato complice o peggio mandante?
«No. No. No», ripeté, accompagnando ogni esclamazione con un pugno sullo stipite della finestra. Doveva riconsiderare quell’eventualità.
«Disturbo?». Eliardo, sulla porta, richiamò la sua attenzione. I cani, accoccolati nei pressi del clavicembalo, alzarono la testa.
L’alchimista era come suo solito molto elegante, con parrucca, tricorno e una marsina inappuntabile. Aveva un viso piatto ma non sorrideva. Sotto il braccio teneva un mucchietto di abiti da uomo, da cui sbucavano brandelli di pizzo bianco.
«L’avete trovato?», ruggì la contessa, facendo balenare nel buio il suo sguardo da felino.
«Giudicate voi stessa». Eliardo gettò i vestiti sul tavolo e incrociò le braccia.
La donna si avvicinò e disgustata scostò appena gli abiti con la gran piuma della penna. «Vi siete preso la briga di controllare, vedo», ammonì, notando alcuni tagli nelle cuciture della velada. «È questa la ragione per la quale avete fatto così tardi?»
«Mi avete usato come carne da macello!», l’accusò lui. «È questa la ragione per cui ci ho messo tanto. Sono dovuto fuggire dai birri e poi ho dovuto nascondermi».
Madame d’Aumale rizzò il busto. «Oppure, semplicemente, vi siete appartato per cercare da voi il mio prezioso».
«Mi offendete».
«Le possibilità sono due», insistette la donna. «L’avete trovato e avete deciso di tenerlo. Non l’avete trovato».
«Di solito passo per un giovane abbastanza sveglio. Non credete che se fosse stato in mio possesso sarei scappato altrove?».
La contessa lo contemplò, tentando di esplorare nei più profondi recessi della sua anima. Certamente Eliardo aveva rovistato nei vestiti prima di portarli a lei. Non poteva sapere cosa avrebbe fatto nel caso avesse trovato l’Omphalos. Poteva però saggiarne la lealtà e sul suo viso vide guizzare un’espressione a lei nota. La sapeva interpretare abbastanza bene, perché l’aveva già vista molte volte in tutti gli uomini con cui aveva avuto a che fare. Significava curiosità mista a incertezza e forse a paura. Probabilmente anche attrazione: cosa abbastanza scontata invero, rifletté. Se c’era una cosa che non significava certamente, era però inganno.
«Va bene. Alla fine quindi torniamo alle tre ipotesi iniziali», dichiarò netta, questa volta a indirizzo di Rudolf. «Le alternative erano sostanzialmente queste: che Sandei avesse addosso l’Omphalos; che l’avesse consegnato a qualcuno, ad esempio voi, Eliardo; oppure che l’avesse nascosto da qualche parte, tra il Casin degli Spiriti e la Furàtola del vin».
«Sandei non l’aveva e io non ce l’ho tutt’ora», puntualizzò l’alchimista. «Quanto ad altri, non so rispondervi».
La mente di Madame d’Aumale corse veloce a Murat Uçar. «Al momento non ci sono altri sospetti, in effetti». La chiostra dei suoi denti bianchi affondò nella delusione del suo viso.
Vedendola, Eliardo si strinse nelle spalle. Fino ad allora le aveva tenuto nascosto un dettaglio che forse poteva essere importante. La considerava una partita alla pari, in effetti, visto che anche lei nascondeva molto, a cominciare da quello strano edificio nella vigna della Giudecca. Ciononostante, si decise a rivelarle quanto sapeva. Aveva più da perdere o da guadagnare? Lei se ne sarebbe approfittata o gliene avrebbe riconosciuto il merito?
«C’è un’altra cosa che credo dovreste sapere», sbottò alla fine l’alchimista, il tono della voce baritonale.
Annika lo studiò incerta.
«Ci ho pensato molto: lo faccio da quando vi ho conosciuta, a dire la verità. Ho continuato a tormentarmi anche rientrando da palazzo dei Camerlenghi».
«Di cosa state parlando?»
«La sera che mi avete invitato sulla vostra gondola, per… be’, per farmi la vostra offerta», sospirò, cercando le parole con cura. «Vi raccontai che avevo veduto Naso solo per pochi istanti, parlandoci a stento. Era vero. Ciò che non vi dissi era però che udii e vidi qualcos’altro… qualcosa che ha a che fare con il vostro amico Grimaldi».
A quelle parole la contessa si irrigidì, senza proferire parola.
«Naso lo cercava, avevano un appuntamento ma lui non si era presentato. Poco prima che uscisse, però, la figlia dell’oste gli consegnò un biglietto, scritto proprio dal vostro amico Francesco».
Madame d’Aumale ebbe un tuffo al cuore. A dispetto del buio, Eliardo ebbe persino l’impressione che fosse diventata più piccola.
«Francesco è dovuto andare via. Si scusa», proseguì Eliardo, recitando a memoria le parole che ricordava. «Credo avesse detto così la giovane. E ha continuato raccontando che Grimaldi le aveva chiesto di consegnare un biglietto a Zuanne».
La contessa si spostò alla finestra, dando le spalle a Eliardo. Il respiro le si fece affannoso. «Tu non ne sapevi nulla?», apostrofò Rudolf. Ma riflettendoci era perfettamente normale che non ne fosse a conoscenza, visto che tutto era avvenuto all’interno del locale mentre lui aveva aggredito Sandei fuori.
A scanso di equivoci l’omone si affrettò comunque a scuotere il capo come un cane bagnato.
«Naso ha afferrato il biglietto e se l’è infilato nel panciotto», concluse Eliardo, contrito. «Subito dopo se n’è andato… E sappiamo come è finita».
«Il panciotto avete detto?». Un lampo di speranza ravvivò il tono della contessa.
«Controllate pure», le suggerì, indicando gli abiti appallottolati sullo scrittoio. «L’ho fatto anche io e non c’è alcun biglietto. Forse gli è caduto o l’ha buttato. O forse, se era davvero importante, l’hanno preso i birri…».
Se era davvero importante…
Ecco il punto.
«Avete dimenticato di dirmi una cosa», sentenziò Annika, che improvvisamente sembrava aver riacquistato la sua autorevolezza. «Come si chiama la ragazza che ha consegnato il biglietto?».