Capitolo 19

Palazzo dei Camerlenghi. Quella sera.

Mezz’ora dopo l’Ave Maria.

 

La donna uscì dal piccolo portone riservato alla servitù guardandosi le spalle.

Le incandescenti luci di quella giornata si erano da poco spente nelle acque del Canal Grande e il lucore del cielo era una tavolozza sui colori porpora. Dalle quadrifore sulle vivaci facciate dei palazzi affioravano le luci dei lampadari, che si fondevano a quelle dei fuochi sull’acqua increspata. Le sagome delle imbarcazioni, qui più piccole, lì più grandi, beccheggiavano sui flutti ormai neri.

Con il cuore in gola, la donna superò a passo svelto il Banco del giuro, in quel momento deserto, e costeggiò le sbarre al pian terreno del palazzo. Quelle stanze, protette da grate di ferro, erano riservate agli insolventi, monito per chi non rispettava le leggi della Repubblica.

Sede di varie Magistrature finanziarie, il palazzo dei Camerlenghi era un sontuoso edificio a pianta pentagonale a volta de Canal, di fianco al ponte di Rialto. Nei suoi ambienti avevano sede i Camerlenghi de Comùn, i pubblici cassieri dello Stato, e agli Extraordinarii. Era proprio grazie a questi ultimi, che verificavano tutti i libretti delle merci in arrivo a Venezia, che il corpo di Zuanne Sandei era stato trasportato lì.

«Una camera ardente come si deve», aveva assicurato uno dei magistrati al padre di Naso. Pietro Sandei era un uomo tutto d’un pezzo, che da zaffo da Barca si era occupato per l’intera vita del contrabbando delle merci. Conosceva quindi tutti a palazzo dei Camerlenghi ed era profondamente rispettato. Portare il corpo del figlio, ucciso da un vile ottomano, in una di quelle stanze, per un estremo saluto dignitoso, era quindi sembrato a tutti un atto sacrosanto.

La donna, tuttavia, ignorava quelle allocuzioni e anzi, in quel momento, aveva ben altri grilli per la testa. Mentre saliva i gradini laterali del maestoso ponte di Rialto, aveva in mente solo l’appuntamento al quale si stava recando: ne era certa, avrebbe cambiato per sempre la sua vita.

«Avete portato ciò che vi ho chiesto?», si informò Eliardo, uscendo incappucciato da uno degli archi bui. In giro sembrava non esserci nessuno, ma con le spie degli inquisitori non si poteva mai dire. In attesa che lei rispondesse, la esaminò meglio: non era più giovane e non era particolarmente avvenente; il suo nome di battesimo era Beata e aveva una dote che per lui era estremamente importante, soprattutto in quei giorni: lavorava come serva nelle stanze degli Extraordinarii, all’interno del palazzo dei Camerlenghi.

«E voi, l’avete portato?», bofonchiò alla fine lei, speranzosa.

Eliardo sorrise con il suo il suo solito salamelecco sghembo che, a quanto pareva, tanto piaceva alle donne. Madame d’Aumale aveva ragione: grazie al biglietto con i dati della donna, che gli aveva consegnato la contessa la sera prima, era riuscito a rintracciarla e a darle appuntamento per quel preciso momento. Entrambi avevano qualcosa che l’altro desiderava…

«Ma certo». L’alchimista si toccò il panciotto ed estrasse un piccolo portamonete, un sacchetto di fustagno verde scuro.

«Datemelo».

Lui la accontentò rovesciandole il contenuto sul palmo. Erano piccole pietre colorate, pesanti e tintinnanti. «Avvolgetele in un panno e avvicinatele… sì, avete capito. Avvicinatele , prima e dopo che il vostro uomo… vi possieda. Prima e dopo, mi raccomando».

La donna annuì speranzosa. Nonostante anni di tentativi, non era mai riuscita a dare un erede a suo marito. Adesso, però, che aveva incontrato il più grande alchimista della penisola italica – almeno così lui si era presentato – le cose sarebbero certamente cambiate.

«Ora tocca a voi», la riprese Eliardo, abbassando la voce. Una caorlina carica di merci stava passando in quel momento sotto il ponte. La seguì fino a che non attraccò alla riva del Carbon e poi tornò a fissare la donna, commossa.

«Ecco». Beata gli consegnò un fagotto. «Ho solo quella, dovete restituirla quando finite».

«Non dimenticate nulla? Gli effetti personali?».

La donna mostrò gli incisivi guasti, si avvicinò e bisbigliò qualcosa all’orecchio dell’alchimista.

«Va bene, vi credo», dichiarò Eliardo infine. «Sappiate però che le gemme perdono i poteri dopo tre settimane di utilizzo. Se non avrete ottenuto ciò che desiderate avrete ancora bisogno di me…».

«Mi avevate detto…».

Eliardo la zittì, poggiandole l’indice sulle labbra. «Ciò che vi ho promesso resta valido. Vi fornirò altre gemme… a condizione che qui ci sia ciò che ho chiesto».

Beata arrossì. «Allora state tranquillo». Così dicendo, voltò le spalle con un inchino e scese i gradini che la separavano dalle fondamenta.

Poco dopo si ritrovò di nuovo a palazzo dei Camerlenghi. Si fermò per un istante sotto i due capitelli che cingevano l’entrata e, avvicinando il sacchetto di fustagno al basso ventre, pronunciò una giaculatoria.

Conosciuti in tutta Venezia come simbolo dell’edificio, quei due capitelli raffiguravano figure antropomorfe estremamente controverse. La prima era una donna con l’inguine in fiamme, la seconda un uomo con un membro gigantesco in mezzo alle gambe. Erano stati edificati in ricordo di due cittadini veneziani, che, durante i lunghissimi lavori di costruzione del ponte di Rialto, avevano pronunciato frasi irriguardose nei confronti degli architetti.

“Il ponte sarà finito quando al pene crescerà l’unghia”, pare avesse detto l’uomo. “E se mai succederà mi darò fuoco alla vagina”, si diceva avesse risposto la donna.

Il ponte, però, nel 1591 a dispetto di tutto e tutti era stato effettivamente ultimato e i veneziani avevano fatto diventare la diffidenza dei popolani motivo di scherno. I capitelli si erano così tramutati per i più nel simbolo della giusta berlina per i detrattori delle capacità della Repubblica. Qualcuno, invece, che non conosceva la legenda, li aveva sempre scambiati per simbolo di fertilità. Come la donna, che, terminato di pregare, rimise il sacchetto sotto il mantello e si avviò verso l’entrata della servitù.

 

 

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A pochi passi di distanza, anche Eliardo si era fermato in una calle poco più larga delle sue spalle, alla luce della luna piena. Svolse lentamente l’involto di stoffa e si assicurò che il contenuto fosse ciò che aveva chiesto. Ed era così: Madame d’Aumale sarebbe stata soddisfatta. Tirò su il cappuccio del mantello e scomparve dietro al teatro di San Luca.