Capitolo 24

Palazzetto d’Aumale all’isola della Giudecca. Poco dopo.

Prima mattina.

 

Eliardo poggiò delicatamente la chicchera di porcellana e addentò una pagnotta dolce.

Ogni mattina, al risveglio, aveva il solenne dubbio: meglio una tazza di esotica cioccolata calda o un caffè? La prima era un toccasana per la digestione, la seconda lo aiutava a tenere a bada l’ipocondria e gli risparmiava di ingrassare.

«Siete stato bravo». Seduta all’altro capo del tavolo, imbandito e apparecchiato come a un ricevimento, Madame d’Aumale carezzò il pelo dei levrieri, accucciati ai suoi fianchi.

Tra lei e il suo ospite, oltre ai candelabri accesi a dispetto della luce che avvampava i giardini e le vigne della Giudecca, c’erano vassoi e brocche. L’alchimista aveva chiesto che gli fosse servito il cosiddetto pan dei dogi, un pane dolce preparato con miele, fichi e noci. C’erano poi i bussolai, biscotti tipici di Burano, e i mori, paste frolle con nocciole ricoperte di glassa. Il tutto servito con cioccolata calda, che la giovane Lucia aveva versato fumante nella preziosa tazza.

«Vi ringrazio». Eliardo si tamponò delicatamente le labbra con un tovagliolo di seta. «E vi ringrazio anche per la vostra ospitalità in questo bel palazzo. È abbastanza appartato da non attirare l’attenzione, ma sufficientemente vicino a San Marco da essere confortevole».

«Mi fa piacere che la sistemazione sia di vostro gradimento: nella vostra situazione, ho ritenuto che l’avreste apprezzato proprio per la posizione lontana da occhi indiscreti».

Eliardo sorrise. Nel volgere di poche ore, sembrava tornato il nobile che aveva sempre millantato di essere. L’accordo con la contessa era stato l’evento più fortunato che gli fosse occorso dall’incidente a palazzo Venier. A fronte degli abiti da damerino e di una camera signorile in quel bel palazzo cinquecentesco, c’era però un prezzo salato da pagare.

«Ma parliamo piuttosto del vostro compito», ruppe infatti l’idillio la contessa. «Siete certo che la donna si fidi di voi? Avete considerato che le informazioni non siano corrette?»

«No», replicò con protervia Eliardo.

«E per quale ragione?»

«Perché Beata desidera un figlio e io sono l’unico in grado di farglielo avere».

«Non vantatevi troppo: non dimenticate che senza di me neppure la conoscereste… Comunque ve ne do atto, la vostra fama di alchimista vi precede». Mentre pronunciava quelle parole, Madame d’Aumale posizionò ordinatamente alcune gemme sul tavolo: tre ametiste e un diasporo.

«Vedo che avete fatto perquisire i miei abiti», sbottò, con un moto d’ira che cercò di celare voltandosi verso la vetrata. Spostò lo sguardo sulle cime delle vigne, per poi tornare alla tavola imbandita.

«Non ve l’abbiate a male, Eliardo: dovendo voi rimanere sotto il mio tetto per qualche tempo, volevo essere sicura di chi mi mettevo in casa».

«E ora siete sicura?»

«Anche se temo che l’amica Beata non riceverà il figlio che desidera, devo ammettere che le gemme sono di ottima fattura. Le avete create nel vostro athanor

«Vi intendete di forni alchemici?»

«Oh, sì. Non avete idea di quanto».

Così dicendo, Annika si alzò dalla sedia e a grandi falcate misurò il salone. Di spalle, la sua sagoma emergeva voluttuosa alla luce lattescente della finestra. Indossava una veste semplice di broccato bianca che le lasciava libere le spalle e metteva in risalto le sue curve perfette. I capelli neri che scendevano fino a metà schiena avevano la consistenza del velluto e il luccichio dell’oro.

«Ciò che devo trovare per voi è simile alle mie gemme, quindi?», domandò Eliardo.

«Delle stesse dimensioni, sì. Ma molto più prezioso».

Il giovane deglutì. Madame d’Aumale l’aveva indottrinato sulle fattezze dell’Omphalos, ma non su quale fosse la sua reale funzione. Più pensava a quell’oggetto, più però si convinceva che l’incarico offertogli era troppo rischioso.

«Talmente piccolo, quindi, da poter essere nascosto negli abiti, nelle calze, ma persino in bocca. E da rendere la ricerca abbastanza difficoltosa…».

«Zuanne doveva consegnarlo a qualcuno», lo rassicurò lei, «è ragionevole che lo tenesse a portata di mano. Non temete, sarà facile come buttar giù un bicchier di vino».

«Mi avete detto che Sandei l’ha ricevuto al Casin degli Spiriti, e che ha girovagato per la città per alcune ore, prima di… be’, prima di andare incontro al suo destino». Eliardo trattenne il respiro per alcuni secondi. Poi decise di proseguire, scegliendo non a caso le stesse parole che Annika aveva riservato poco prima a lui: «Avete considerato l’idea che il vostro oggetto non si trovi sul corpo o negli abiti di Naso?».

L’eventualità che il gondoliere si fosse liberato dell’Omphalos durante la fuga era ben chiara nella mente di Annika, ma lei rifiutava di accettarla. Così come l’inspiegabile scomparsa del suo Francesco.

«Posso farvi una domanda?», cambiò argomento lui, dando fondo al suo umor cupo.

«Dite pure».

«Perché avete scelto me?».

Annika questa volta sorrise, voltandosi verso il suo ospite. Fu un sorriso lieve, ma affabile e divertito, con le labbra appena increspate. «Perché abbiamo bisogno l’uno dell’altra».

«Non siete una brava bugiarda». A dispetto della sue parole, vedendola per un solo istante priva della corazza che celava la sua reale essenza, Eliardo si sentì in soggezione. Non era da lui, che cambiava donne come si cambiano gli abiti e che sapeva sempre far fare agli altri ciò che desiderava. Eppure accadde. Per un istante si sentì perfino afflitto dal rimorso per averle nascosto la vicenda del biglietto, che il gondoliere aveva ricevuto poco prima di essere ucciso.

Riacquistato il controllo, proseguì modulando la voce: «Volevate semplicemente qualcuno che non fosse in alcun modo riconducibile a voi. E che fosse sacrificabile. Più ci penso, se mi permetterete, più mi convinco che il nostro incontro non sia stato affatto casuale: siete stata voi a spingermi tra le braccia di Cristina Venier?».

La donna si produsse in un sorriso beffardo, ma non replicò.

«Visto che calcolate ogni vostra mossa, avete valutato l’eventualità che io non vi restituisca l’Omphalos? Se è così di valore, qualora lo trovassi potrei decidere di tenerlo. O di venderlo».

«Non lo farete».

«Come potete esserne certa?»

«Perché siete un uomo intelligente. E soprattutto siete curioso: scommetto che anelate di sapere a cosa serve; piuttosto, quando avete intenzione di fare ciò per cui siete qui?»

«Oggi stesso. La camera ardente è aperta per l’intera giornata prima delle esequie».

«Molto bene», assentì lei, e si spostò verso l’anticamera. Qualcuno si era mosso fuori e i cani dovevano averlo percepito perché avevano aguzzato le orecchie. «Se ora volete scusarmi, ho altre incombenze».

Senza troppe cerimonie, aprì la porta smaltata e, preceduta da Diderot e Voltaire, scomparve oltre la scala che portava di sotto.

Rimasto solo, Eliardo fece un respiro profondo.

In che guaio si stava cacciando?

Scostò la sedia avvicinandosi al grande finestrone affacciato sul complesso delle Zitelle, e proprio in quel momento udì come un vociare lontano. Poco più che bisbigli, invero, ma netti come se vi fosse un formicaio in piena attività nel sottosuolo.

Si mise in allarme, immaginando già qualche inquisitore pronto a incatenarlo.

Strinse le palpebre e scrutò meglio verso gli assolati muretti di mattoni, che delimitavano gli orti verdeggianti della Giudecca. Non c’erano birri né nessun altro. La fonte di quei rumori era tuttavia chiaramente individuabile: un caseggiato stretto e lungo, sormontato da un tetto curvo, al limite del podere di proprietà della contessa. Un filatoio o una vetreria nel bel mezzo di una vigna?

 

 

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Pochi istanti più tardi, Madame d’Aumale entrò in un grazioso salotto sulle tinte del verde, con pareti dello stesso colore del divano e stucchi dorati sul soffitto.

«Allora, tutto come previsto?», interrogò Rudolf, che la attendeva con il tabarro sotto il braccio.

Il gigante si limitò ad annuire e posò delicatamente la moretta di colore rosa sul tavolo lucente.

«Se qualcuno ti ha visto, fa’ in modo che non possa arrivare fino a noi». Quello era l’ordine che gli aveva impartito due giorni prima. La vicenda con Zuanne era stata mal gestita e, affinché il piano si realizzasse, era stato necessario un piccolo aggiustamento.

«Ti hanno riconosciuto?», domandò ancora. «E i nostri operai hanno avuto sentore di qualcosa? Non possiamo permetterci che credano di non avere più una guida…».

Rudolf sorrideva raramente, ma quella volta lo fece e Annika sospirò, soddisfatta.

«Un’ultima cosa: il mio Francesco? Hai avuto notizie?».

A quella domanda, il riso si spense immediatamente e il viso del gigante si incupì.