Capitolo 69

Piazza San Marco, sabato 18 luglio 1761.

Tarda sera.

 

Tutti gli anni, fin dal 1577, ogni terza domenica del mese di luglio si celebrava la Festa del Redentore. Nata come voto per liberare la città dalla peste, che aveva ucciso nei tre anni precedenti un terzo dei veneziani, l’evento si era trasformato in un’attrazione popolare per l’intera laguna. C’erano balli e festeggiamenti di ogni tipo, che avevano inizio il sabato e continuavano fino all’alba.

I preparativi duravano per l’intera settimana, ma l’inizio vero e proprio era rappresentato dall’apertura del ponte votivo: una lunga passerella costruita con le barche dei cittadini, che attraverso il canale della Giudecca collegava le Zattere alla chiesa del Redentore. In quel frangente, cominciava anche la celebrazione religiosa, in ricordo della prima solenne processione voluta dal doge Venier per festeggiare la fine dell’epidemia; la festa aveva anche il pregio di azzerare per una notte le distanze sociali e generazionali: nel lungo ponte convivevano infatti, l’una accanto all’altra, scalcagnate barche da lavoro, costose gondole patrizie, caorline e burchi di ogni risma.

Il culmine del sabato sera era però un altro: un detto veneziano diceva che non c’è Festa del Redentore senza i foghi; proprio in quello confidava Madame d’Aumale, quando a tarda sera la sua gondola attraccò nei pressi della Sanità, alle spalle di piazza San Marco.

Le calli erano gremite di popolani e nobili e il Canal Grande era trafficato d’imbarcazioni. Tutti in abiti acconci, i migliori che il loro ceto sociale consentiva, erano intenti a consumare frìtole, vino e dolci. Ciascuno discuteva amabilmente con il vicino e ovunque, dalle barche fino alle altane, era un tripudio di festoni e balóni di carta colorata.

Anche le fondamenta erano affollate ma la contessa, imbellettata e con indosso un regale abito giallo dall’ampia foggia in stile rococò, si mosse velocemente. Protetta da Rudolf e spalleggiata da Lucia, pure lei in abito canarino con pizzi di raso, trine e perle, riuscì a farsi strada verso la basilica di San Marco.

La terrazza dov’era diretta, che sovrastava le cinque arcate inferiori della facciata, non era un luogo facilmente raggiungibile. Vi si accedeva dall’interno della chiesa, ma non tutti potevano salire le scale e godere dello splendido paesaggio, che spaziava da San Sèrvolo a San Giorgio Maggiore fino a Santa Croce. Si diceva che il doge, in passato, vi avesse condotto qualche maggiorente, ma senza oliare le ruote giuste non era possibile neppure avvicinarvisi.

«Ci aspetta sotto il porticato», riferì Lucia, facendosi largo tra i cittadini festanti. Sollevò lo strascico dell’elegantissimo abito che le aveva fatto indossare la contessa e aumentò il passo.

«Gli hai promesso abbastanza?»

«Cinquanta soldi», confermò la ragazza. «Ho pensato che per un pretucolo come lui, che li spenderà in donnacce, potessero bastare».

Madame d’Aumale annuì. Si spostarono in direzione del ponte della Paglia e superarono alcuni banchetti odorosi di cibo. Proprio in quel momento, il primo fuoco pirotecnico rischiarò il cielo nero. Cascate di luci colorate cominciarono a riflettersi sull’acqua e giochi di ombre si stagliarono sui marmi orientaleggianti del palazzo Ducale.

«Eccolo», comunicò Lucia. «È lui».

Davanti alla Porta del Frumento un prete basso di statura e con il naso arrossato la salutò con il braccio. Solo la ragazza gli si fece incontro, e assicurandosi di non essere veduta da nessuno. Gli mise in mano alcune monete.

«C’è qualcuno, su?», abbassò la voce.

Il religioso indugiò sull’abito da dama dell’ancella e soprattutto sul décolleté che sfuggiva dai pizzi. «Un uomo… è salito poco fa!».

Lucia annuì, guardandosi nuovamente attorno. Ma nessuno li aveva visti: oltre la fila di colonne e il porticato c’era un gran movimento di gente distratta e con il naso puntato all’insù. Gli scoppi dei fuochi rimbombavano come colpi di cannone sul loggiato soprastante. «Da che parte?»

«Potete salire dalla scaletta di servizio», gli spiegò il prete, che nello sfiorare la mano della ragazza le passò una chiave.

Un istante più tardi, Lucia tornò dalla contessa al centro della piazza e le indicò la direzione. La maestosa porta della Carta, sormontata da marmi intagliati con al centro il Leone di San Marco, si trovava sul lato sinistro della basilica, al confine con le mura del palazzo Ducale. Vi entrò indisturbata e poco oltre individuò la porticina, che si aprì al primo colpo. Non dava accesso alle navate, come era lecito supporre, bensì a un antro disadorno, rischiarato da una lampada tremolante. Sulla sinistra, una buia scaletta a chiocciola di pietra si inerpicava, salendo verso il buio.

Madame d’Aumale rifletté un’ultima volta, domandandosi se era sicuro andare personalmente. Dopotutto, si trattava di riaprire la ferita sul braccio di Eliardo. Avrebbe potuto farlo Rudolf… anche se l’ultima volta aveva fallito. Decise di no. Quantomeno, doveva una spiegazione all’alchimista. Congedò i due servitori dando loro le ultime istruzioni e poi sollevò l’ampia gonna. Indossava tacchi alti ornati sul davanti con nastri disposti a ciuffi. Le scarpe, realizzate con la stessa stoffa dell’abito, sembravano tutt’altro che comode per salire. Le tolse, le prese in mano e affrontò i gradini lentamente, a uno a uno.

Una volta in cima, ansimante, aprì la porta e lo spettacolo che le si parò davanti le tolse il fiato. Il cielo sopra i tetti era una tavolozza di luci scintillanti: una pioggia di stelle d’oro e d’argento che ricadevano morbide e lente sulla laguna e sui palazzi. Le luci lussureggianti si mescolavano l’una all’altra, regalando riflessi che abbracciavano tutto lo spettro dei colori conosciuti.

Con le scarpette in mano, Madame d’Aumale cercò di orientarsi. Alla sua destra la visuale era ostruita dai cavalli di bronzo che dominavano la piazza, la quadriga in trionfo portata a Venezia da Costantinopoli dopo le Crociate. Dalla parte opposta, il parapetto di marmo correva diritto lungo tutta la terrazza, fino ad affacciarsi sulle colonne e sul bacino traboccante di barche.

Lì davanti, di spalle, c’era una figura maschile, in piedi, silenziosa a contemplare lo spettacolo pirotecnico che riluceva nella notte.

«Sei un inguaribile romantico», bisbigliò la contessa, avanzando lentamente. Un lampo rosso e verde, e poi il rombo di un tuono, interruppero per un istante le sue parole. «Ero certa di trovarti qui».

«Ne sei proprio sicura?».

Udendo quella voce, Annika si paralizzò, sgomenta.

«Non ne sarei così certo, Annika mia», proseguì l’uomo, voltandosi con fare teatrale. «Immagino che aspettassi qualcun altro…».

Lei ammutolì, come se avesse visto un fantasma. Non era Eliardo, bensì…

«Se non per me, sono sicuro che almeno sei qui per questo…». Francesco Grimaldi le fece un sorriso sghembo e poi aprì con un gesto plateale il palmo della mano. All’interno c’era una piccola gemma traslucida.