Capitolo 58
Isola della Giudecca. Contemporaneamente.
Tarda sera.
L’isola della Zuèca, come era conosciuta la Giudecca nell’antichità, aveva due volti: quello verso la laguna, fatto di piccoli orti, giardini e broli, e quello verso la città, popolato invece da ponti, palazzi e chiese.
Proprio in uno degli edifici affacciati sul canale era diretto Lodovico Van Axel, alla testa di un manipolo di uomini. Il palazzetto d’Aumale era il secondo posto dove era necessario proseguire la ricerca della contessa. Dai dati forniti dal cancelliere Padoan, Madame d’Aumale possedeva, oltre all’ex palazzo Grimaldi, un altro edificio alla Giudecca. Il capitano riteneva improbabile che la nobile, se davvero era fuggita, si fosse nascosta lì, tuttavia non aveva voluto trascurare alcun dettaglio.
«Presto, per di là», ordinò, consultando una mappa di pergamena, reperita negli archivi di palazzo Ducale. I birri si arrampicarono su un alto muro con mattoni a tessitura alla gotica, e saltarono in un giardino. Anche ai raggi bluastri della luna appariva molto rigoglioso, con spalliere di rose, tulipani, garofani, filari di pergole d’uva, gelsi e pittospori.
«Ecco la casa», bisbigliò uno degli zaffi, indicando un edificio bianco a tre piani oltre i cipressi. Tutte le finestre erano buie e sprangate e sulla facciata danzavano le ombre degli alberi mossi dal vento.
«Voi, alla casa», indicò. «Voi, con me: oltre le vigne sulla mappa c’è un altro edificio, forse un’officina o un cantiere per il rimessaggio delle barche».
I birri si mossero tutti insieme, dividendosi in due gruppi e correndo a testa bassa tra i cespugli. Van Axel, che aveva ancora davanti agli occhi le pergamene colme di calcoli e lo strano marchingegno visto a Ca’ d’Aumale, era sempre più combattuto. Più proseguiva in quella ricerca, più dentro di lui si facevano strada le ardite confessioni di Grimaldi.
«C’è un macchinario in grado di leggere Il libro del destino», aveva detto. «Serve a prevedere il futuro». Per quanto quella rivelazione gli sembrasse folle, quella strana macchina era dove in effetti aveva detto il barnabotto. E c’era molto di più: nel palazzo aveva trovato altre tabelle, sulle quali erano appuntate possibili ipotesi sulla morte di Gerolamo Venier.
Sembrava che qualcuno – la contessa evidentemente – si fosse sforzata a descrivere scenari che portavano allo stesso tragico epilogo: dalla caduta dalla finestra alla spinta della moglie, fino all’intervento di soggetti esterni, con lame o anche coltelli. Non era stato in grado di identificarli tutti dalle semplici iniziali, ma in diverse tabelle compariva anche “E.D.B.” di de Broglie.
La spiegazione più logica era che quei documenti fossero stati redatti dopo la morte di Venier, per cercare di rendere credibile tutta quella folle storia. Contrariamente alla logica, l’ipotesi opposta, e cioè che fossero redatti prima, era però sempre più fascinosa e vivida nella sua mente.
«Non c’è nessuno», illustrò uno degli zaffi, davanti alla porta spalancata della costruzione al confine della tenuta. Van Axel entrò circospetto, sollevando la lampada. Al cono di luce l’interno era disadorno, con numerosi tavoloni e sgabelli. Alcuni mobili erano rovesciati e numerose carte per terra gli ricordavano le foglie d’autunno. Sembrava che chiunque fosse stato lì se ne fosse andato in tutta fretta.
Mosse qualche passo sul pavimento in cotto e raggiunse un pulpito: sul piano scabro di legno, impilati ordinatamente c’erano mucchi e mucchi delle solite tabelle, colme di numeri e lettere. A prima vista potevano essere diverse centinaia, se non addirittura migliaia. Alcune erano persino rilegate e allineate lungo la parete.
Van Axel afferrò dei fogli a caso e alla luce danzante della fiammella cominciò a leggere: «IPOTESI 2008; IPOTESI 5041; IPOTESI 12127». La grafia era diversa da quella arrotondata che conosceva e in basso, su quelle previsioni, c’erano date che andavano da alcuni anni prima fino… al futuro: «25 marzo 1757; 27 settembre 1760 e 18 luglio 1761», cioè l’indomani.
Il capitano indugiò lungamente su quell’ultima ipotesi, grattandosi il capo. A un certo punto si voltò, portando a favore di luce uno dei plichi rilegati in vitellino: non avevano alcuna indicazione all’esterno, quindi cominciò a sfogliarli con foga, scorrendo altre decine di tabelle. Le lesse una a una fino a che non fu costretto a fermarsi di colpo: a circa metà, uno dei cifrari attirò la sua attenzione. Recava l’indicazione di un giorno spostato di quasi un anno nel futuro, il 19 maggio 1762. La didascalia recitava: “IPOTESI 14308: F.L. MORTE PER FEBBRI”.
F.L. stava per Francesco Loredan, il doge?
«Non c’è nessuno neppure nel palazzo», fece eco uno degli armigeri che avevano perlustrato la casa patronale.
Van Axel, corrucciato, annuì.
MORTE PER FEBBRI.
Quelle tre parole lo travolsero come una frana. La sua mente si affollò di pensieri su pensieri, a cui non riuscì a far fronte, ma solo uno lo spinse ad agire.
«Aiutatemi», sancì, netto. «Controlliamo questi fogli uno a uno. Cerchiamo tutti quelli che hanno date di questa settimana, di oggi o anche di domani». Glissò, con aria trasognata. «Forse c’è un modo per trovarla… e salvare la Repubblica».