Capitolo 73

Isola di Murano.

 

L’incedere lento di Uçar, che avanzò nella cucina con lo sguardo crudele, ricordò a Eliardo quello di Cesare Trevisan. Era stato solo due sere prima, ma gli sembrava trascorsa un’eternità.

Per un istante si ritrovò sul burchiello, diretto a Mira. Non aveva ancora trovato la gemma e credeva di essersi lasciato alle spalle gli assalitori. Ma si sbagliava di grosso. Poco dopo la sua partenza, Cesare Trevisan l’aveva raggiunto sull’imbarcazione che solcava il Brenta.

«Dove eravamo rimasti?», lo aveva sferzato il veneziano, con il suo viso tondeggiante e il sorriso rubicondo.

Eliardo era rimasto senza parole. Aveva guardato oltre il ponte del burchiello, ma non poteva certo buttarsi in acqua. Non febbricitante ed esausto com’era.

Trevisan gli si era seduto accanto, occupando con la sua stazza quasi tutto il divanetto foderato di seta rossa. «Mio caro Eliardo», aveva esordito, «come ho già avuto modo di dirvi, siete un uomo dalle molte risorse».

«Cosa volete?»

«Sapete già cosa vogliamo».

«E io ve l’ho già detto, non ho l’Omphalos!».

«Di questo abbiamo già parlato, mi pare, prima che voi…». Trevisan si era fermato. Aveva esaminato il bel salottino nel quale erano accomodati, quasi a voler sottolineare che non avrebbe voluto o dovuto trovarsi lì. «Prima che voi… aveste la bella pensata di fuggire».

«Cos’altro avrei potuto fare?»

«Ascoltare la mia proposta, per fare un esempio».

Eliardo aveva sollevato un sopracciglio. «Che tipo di proposta?»

«La contessa si fida di voi. Per qualche strana ragione ci tiene alla vostra pelle tanto da aiutarvi a fuggire».

«Ebbene?»

«Ebbene, raggiungetela. Circuitela, se serve, e rubatele la gemma».

«E perché dovrei?»

«Per avere salva la vita, per che altro?».

Lui scosse il capo.

«Se vi aiuto poi mi lascerete andare?»

«Il mio datore di lavoro è un uomo molto ricco: non solo vi lasceremo andare, ma ci sarà per voi una lauta ricompensa».

A quelle parole, Eliardo non era stato in grado di opporsi. Aveva accettato seppur non troppo convinto e solo in seguito aveva scoperto la strana ragione per la quale Annika era interessata a lui. Poi era stato arrestato e le cose si erano complicate: sulla terrazza aveva dovuto trovare un modo per far capire alla donna che era una trappola, e il modo, paradossalmente, era proprio la pietra.

 

 

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Il giorno successivo, in quella casupola di Murano, Annika sbirciò l’Omphalos, al centro del tavolo.

Adesso le parole di Eliardo cominciavano ad assumere un significato diverso. «Voglio sapere come funziona la pietra. Voglio che mi insegni. Andiamo via». Nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile, a meno che non si fosse prestata al suo gioco. Ma era certa che l’alchimista fosse davvero dalla sua parte?

«Prendetela!», la graffiò Uçar con la voce.

«Alla fine ci siete riuscito, dunque!».

«Sapevate che ero disposto a tutto per avere l’Omphalos…». Così dicendo il turco allungò la mano e ghermì la gemma, alla luce della candela. Rimirò ogni suo bagliore, ogni venatura, ogni taglio. Quanta fatica aveva fatto, quanta strada. Tutto per quel piccolo pezzo di vetro lucente.

«Io sono stato di parola», si rivolse ancora a lui Eliardo. «Adesso lasciateci andare».

Uçar lo degnò appena di una scorsa e con la mano libera prese un sacchetto dalla cintura e lo gettò per terra. Le monete, presumibilmente contenute all’interno, tintinnarono.

Eliardo si abbassò per raccoglierlo e notò che proprio in quell’istante una piccola pistola era comparsa nella mano del turco. «Cosa state facendo?»

«Prendete i soldi e andate!», tuonò Uçar, ancora senza fissarlo ma questa volta con le iridi ferine puntate sul viso di Annika.

«Non erano questi gli accordi», protestò l’alchimista. «Volevate la pietra e ora l’avete. Dovete lasciarci andare. Entrambi!».

«Messer de Broglie, ve lo ripeto, prendete i soldi e andate!».

Eliardo non si mosse.

«Non avrete certo creduto che potendo scegliere mi sarei accontentato solo dell’Omphalos?». Si voltò per un istante, ma poi tornò a fissare Annika, impietrita dalla parte opposta dal tavolo. Qualcosa, nel piano di Eliardo – ammesso davvero che ne avesse uno – sembrava essere andato storto. «Ho deciso che prenderò la pietra e la Dama nera insieme».

«Non erano questi gli accordi!».

«Ve lo chiedo un’ultima volta, de Broglie, girate i tacchi e uscite». Il turco sospirò. «Avete onorato l’accordo. Avete i soldi, andatevene e dimenticate questa faccenda».

Eliardo si sentì mancare. Era arrivato a un passo da ciò che desiderava e ora era costretto a rinunciarvi. Strinse nel pugno il sacchetto pieno di zecchini.

Come spesso gli accadeva non ci mise molto a decidere cosa fare. «Mi dispiace», si limitò a sussurrare, più a sé stesso che alla contessa. Guadagnò la porta senza voltarsi più e uscì. Chissà, se lei avesse risposto diversamente alla sua domanda di insegnargli, di stare con lui… Magari si sarebbe comportato diversamente: avrebbe potuto fermare il turco, avrebbe mentito, si sarebbe potuto inventare qualcosa. Ma non era successo: come sempre, tra la luce e l’ombra aveva scelto l’ombra. Con la consapevolezza di avere comunque ottenuto il massimo, aveva pensato a sé stesso prima che agli altri. Per la prima volta da quando era ragazzino, però, una lacrima gli solcò la guancia.