Capitolo 72
Isola di Murano, domenica 19 luglio 1761.
Ultime ore della notte.
Era quasi l’alba quando la gondola nera attraccò a Murano, non lontano dal convento della chiesa di Santa Maria degli Angeli. Le prime lingue grigie squarciavano il nero del mantello notturno e sfumature avorio emergevano tra le nuvole.
L’uomo ormeggiò l’imbarcazione legandola a una briccola e si avviò con passo svelto lungo le fondamenta. Non c’era nessuno e una piacevole brezza mattutina scompigliava i capelli.
Camminò a lungo, sulla via che conosceva, e quando riconobbe la sagoma austera della chiesa di San Pietro martire svoltò a sinistra. La calletta era fiancheggiata dalle mura scrostate dei due palazzi di tre piani e le imposte sopra di lui erano tutte chiuse. Oltre i tetti si scorgeva il grande rosone che sovrastava la facciata in mattoni della chiesa. Poco oltre, una fabbrica di vetro occupava l’intera visuale. Era nell’alloggio attiguo che era diretto.
Raggiunse la porticina dipinta di verde, in cima a tre gradini di pietra, e poggiò la mano a uncino sulla maniglia. Come aveva immaginato, era aperta e la flebile luce di una candela lanciava riflessi sul pavimento di ceramica.
«Ben arrivato», esordì Madame d’Aumale, seduta su una poltroncina di velluto rosso che doveva aver visto anni migliori. Davanti a lei c’era un tavolaccio con gambe a sciabola, una credenza consunta e una serie di stoviglie appese a una trave. Su una cassapanca, poco lontano, troneggiava invece un bicchiere e una bottiglia di Borgogna.
Eliardo la fissò per qualche istante. Indossava abiti da popolana ma, a dispetto della teoria di oggetti modesti che la circondavano, la sua nobile bellezza riusciva a risaltare ugualmente.
«Ero sicuro di trovarvi qui».
Senza rispondere, lei si accertò che l’alchimista fosse venuto da solo.
«Come ho già avuto modo di dirvi, sono un giovanotto sveglio», continuò Eliardo, un ghigno sul viso. «Questo è “il posto più sicuro che esiste, dove nessuno vi troverà”». Ripeté a memoria le parole che Annika stessa aveva rivolto a lui subito dopo la fuga da palazzo Malipiero. Era proprio in quella casa che era stato portato perché gli fosse suturata la ferita al il braccio… con tutte le conseguenze del caso.
«Ho imparato che il miglior nascondiglio è quello dove nessuno penserebbe di cercarti», rivelò la contessa. Si alzò, avvicinandosi di un passo al tavolo. «A proposito, vi devo ringraziare».
Eliardo rimase immobile, dalla parte opposta, e le sorrise. Un sorriso che però non aveva nulla di affabile. Nonostante le scelte della sera precedente fossero state ponderate per riuscire ad arrivare da solo a quel momento, non era ancora certo di potersi fidare. Il lato positivo, se voleva trovarne uno, era che le grinfie dei birri di Mellan lo avevano mollato. Lui era stato sincero nel rivelare dove l’avrebbero trovata, e il fatto che poi lei fosse fuggita non poteva certo essergli imputato. O almeno… Non potevano essere certi che fosse così. In un caso o nell’altro, dopo la rocambolesca fuga dal ponte del Redentore, Mellan aveva mantenuto la sua parola e lo aveva lasciato libero.
«Sapevo che avreste capito che era una trappola».
Annika sorrise e con studiata lentezza poggiò la gemma lucente al centro del tavolo, a metà tra lei ed Eliardo. «Non poteva essere altrimenti», sorrise.
«Se proprio devo essere onesto, quando avete sfoderato quel fischio di ammirazione temevo che avrebbero capito». L’alchimista si fermò, lanciando un’occhiata fugace al suo braccio, ancora dolorante. «Ma in effetti quale segnale migliore per un cane da guardia, se non un fischio?»
«Rudolf non vi avrebbe fatto del male».
Lui sorrise, scuotendo il capo. «Questo è tutto da dimostrare».
«Non siete più arrabbiato… altrimenti io non sarei qui… e voi neppure!».
Per un istante l’alchimista trattenne a fior di labbra quanto aveva da dire. Nelle parole di Annika c’era un fondo di verità, non poteva negarlo. Lei però non riusciva ad avere una prospettiva completa della faccenda. Le mancava ancora un dettaglio tutt’altro che trascurabile. «La questione è un po’ più complicata».
«Cosa intendete?»
«Sapete quello che intendo: nessuno fa niente per niente».
«Volete denaro?», lo sferzò lei, con un pizzico di stupore nella voce. «Ne avrete promesso anche a Francesco, immagino, per garantirvi il suo silenzio con i birri. Quanto ve ne serve?».
Lui sospirò, deluso. Denaro? Era come pensava: non aveva capito nulla. Sotto sotto aveva sperato che il fugace bacio sulla terrazza avesse un qualche significato. Non che fosse tornato da lei per tale ragione, ma quella donna dimostrava una volta per tutte di essere un pezzo di ghiaccio.
«A essere del tutto sincero credevo che la faccenda vi fosse ormai chiara». Non convinto di essersi spiegato, cercò parole più dirette: «Voglio sapere come funziona la pietra. Voglio che mi insegnate, anzi che mi insegni. Andiamo via, a Milano, Napoli, Roma. Andiamo via e ricominciamo: come soci, non altro».
Annika rimase immobile come una statua. Non altro. «Impossibile», sentenziò alla fine, con una lama scura di sospetto sul volto.
Eliardo scoppiò in una risata, il piglio pragmatico di chi aveva previsto quella reazione.
Si voltò e spalancò la porta. Fuori, statuario nella sua lunga tunica bianca c’era un uomo, che aveva conosciuto solo di recente: Murat Uçar.