Capitolo 75

Nei pressi di Oriago, sulle rive del Brenta. Il giorno prima.

Dopo l’alba.

 

Eliardo udì i cavalli da mille piedi di distanza. Poco prima, dolorante e spossato, si era fasciato nuovamente la ferita al braccio e aveva riposto la gemma nel portamonete di fustagno. Ciò che lo aveva colpito era che l’Omphalos non era affatto bello o appariscente. Gli aveva ricordato un vetraccio opaco, una gemma fasulla sporca di fuliggine e mal riuscita.

Nel poco tempo che aveva trascorso nella locanda Màgna e tasi aveva avuto modo di pensare: Madame d’Aumale si era semplicemente approfittata di lui, solo per usarlo come cavallo di Troia. Quel ragionamento gli aveva dato la consapevolezza che era in pericolo: lei sarebbe arrivata per riprendersi la sua gemma. Aveva così indossato un mantello e, ancora febbricitante, era sceso nel bàcaro. L’unica scelta era quella di fuggire, dopotutto quella pietra che in tanti volevano doveva avere un certo valore: avrebbe sempre potuto rivenderla. Appena fuori nel porticato, pronto a incamminarsi verso l’entroterra, aveva però udito gli zoccoli dei cavalli e veduto la polvere nell’umidità. Sulle prime aveva immaginato si trattasse proprio della contessa, ma s’ingannava.

«Signor Salazar», gli grugnì addosso Mattio Mellan, appena i suoi uomini gli furono innanzi. Era in groppa a un purosangue pezzato e il mantello nero del Missier Grande copriva l’intera sella. Accanto a lui c’erano il capitano Van Axel, con i capelli castani raccolti in una coda, e diversi fanti della Quarantìa.

Eliardo poggiò il fagotto che stringeva e alzò le mani.

«Dov’è la vostra amica, la contessa d’Aumale?», abbaiò Van Axel.

«Non lo so davvero, eccellenza».

«Siete fuggito da Mira, non è così?». Mentre parlava, il capitano smontò da cavallo e gli si fece incontro.

Eliardo si limitò ad annuire.

«L’incendio nella villa della contessa è opera vostra?». Mentre parlava, Van Axel afferrò la sua sacca e senza il minimo riguardo ne rovesciò il contenuto per terra. Conteneva pochi effetti personali, un bandoliere, una cuffia per la notte, una casacca tarlata, un fazzoletto frusto. «Oppure è stato qualche perdigiorno vostro complice?»

«Non so davvero a cosa vi state riferendo». Ed era vero. Di quale incendio stava parlando il giovane ufficiale?

«Forza, Salazar», lo spronò anche Mellan, dall’alto della sella. Il cavallo nitrì, spazientito. «A Mira sono morti almeno cinquanta uomini. Sappiamo che la contessa era lì e che è fuggita. Il cocchiere ci ha detto di aver condotto in questa locanda un uomo e una donna. La domanda quindi è: dov’è Madame d’Aumale

«È tutto vero», ammise Eliardo. «Una carrozza mi ha condotto qui ieri sera… ma la donna non era la contessa. Era una sua domestica».

«E dov’è, di grazia, la contessa?»

«Ve l’ho già detto, eccellenza, non lo so davvero».

A quel punto Van Axel prese a tastargli il corpo, sfiorò la ferita al braccio, passò le mani sulle cosce e sui fianchi e infine si fermò di colpo. Sotto la scarsela toccò il suo portamonete e glielo strappò con un colpo secco.

Eliardo era incredulo. Dopo tanta fatica gli avrebbero portato via l’Omphalos, che aveva riposto proprio dentro l’involto di fustagno.

«Portate con voi le gemme fasulle che fabbricate a casa vostra, vedo», commentò Mellan, mentre Van Axel rimestava il contenuto. C’erano cinque pietre in tutto, un lapislazzulo, due ametiste e un diasporo, tra il grigio e il verde, di splendida fattura. La quinta pietra era la più brutta all’occhio, torbida e non perfettamente tagliata.

«Speravate di raggirare qualche altra donna sterile?», lo sferzò il capitano, con ironia. Afferrò tra le dita la gemma più lucente, il diasporo appunto, e la portò a favore di luce, per verificare se all’interno si vedeva il famoso Libro del destino. «Oppure avete voi la pietra rubata alla contessa? È questa? Eravate forse d’accordo con Grimaldi?».

Eliardo si fece scivolare addosso quell’affronto, ma nel vedere Van Axel osservare con attenzione una delle gemme ebbe un’idea. Le accuse del capitano erano poco più che supposizioni, visto che aveva trovato l’Omphalos solo pochi minuti prima. I birri quindi non potevano avere alcuna certezza di quello che stavano dicendo… a meno che non fosse stato lui a dargliela. E in quel caso, come avrebbe detto Annika, aveva quattro possibilità su cinque di farla franca.

«Avete vinto!», mugugnò alla fine, scuotendo il capo.

«Cosa volete dire?».

Mellan comprese il significato delle sue parole e smontò da cavallo.

«Sapete tutto, eccellenza. Sapete cosa voglio dire!».

«È questo dunque il famoso Omphalos?». Van Axel gli sventolò davanti la pietra con le facce seghettate. Era perfetta, lucente, sicuramente molto più appariscente del vero Omphalos, che non aveva degnato invece di uno sguardo.

«La contessa mi aveva chiesto di custodirlo dopo l’incidente a palazzo Malipiero». Quelle parole gli sgorgarono dalla gola senza che quasi ci riflettesse. Invece di “custodirlo” forse avrebbe potuto usare una parola diversa… ma in estrema sintesi era più o meno la verità.

«È dunque era questo il vostro ruolo? E come funziona la pietra? Si posiziona in quello strano marchingegno a casa della contessa ed è possibile leggere il libro? È così?».

Il viso di Eliardo fu eloquente. Non aveva idea di cosa stesse parlando il capitano. Non sapeva di alcun marchingegno e di alcun libro.

«Il libro del destino, sapete come funziona? Che intenzioni ha la vostra amica? Come può quella donna prevedere il futuro?».

Troppe domande tutte insieme, ma solo una lasciò il segno.

Prevedere il futuro?

Eliardo rifletté per alcuni secondi… e più rimuginava più i sermoni di Van Axel rimbalzavano nella sua testa come in una scatola vuota. Tutto aveva senso ora, ma come era possibile? Non poteva saperlo, forse si trattava di magia; era per forza così: magia. Il capitano aveva parlato però di un libro del destino e di un marchingegno. Senza volere, quei due concetti si unirono ai mille dubbi che già lo attanagliavano: dalla sua fuga da Venezia fino alla mendicante pronta con gli abiti asciutti.

«O è in grado di prevedere il futuro… oppure è andata proprio come dite voi», l’apostrofò Mellan. «Sono parole vostre, messer Salazar, voi sapete cosa è in grado di fare quella donna. Dovete spiegarci come funziona la pietra e il marchingegno, per il bene della Repubblica!».

L’alchimista deglutì. Era davvero possibile che fosse così? Scrutò ancora la mano di Van Axel, che, nonostante continuasse a indugiare sul diasporo, continuava a tenere tutte le altre pietre nel palmo guantato.

«Eccellenze», sbottò alla fine, «state ponendo le domande alla persona sbagliata: io sono solo un semplice fattorino…».

«Se siete un fattorino, allora probabilmente dovete consegnare la pietra al suo legittimo proprietario: la contessa. Dove avevate in programma di incontrarla, dunque?»

«Sarei dovuto andare a Mira», confessò Eliardo, «ma se non ho male interpretato le vostre parole, la villa di Madame d’Aumale è bruciata e lei è fuggita».

«E quindi, dove stavate andando poco fa, prima che arrivassimo?».

Eliardo si irrigidì. Era il momento di giocare le sue carte. «So di non essere nelle condizioni di proporre un accordo», esordì, «ma forse posso esservi d’aiuto…».

Nei minuti successivi aveva espresso la sua idea: forse c’era un luogo in cui la contessa si sarebbe recata durante i fuochi della Festa del Redentore. Non era certo, ma se fosse stato così e lo avesse rivelato, i birri avrebbero lasciato cadere le accuse su di lui.

Durante quel franco colloquio era emerso anche un altro dettaglio che aveva a che fare con Grimaldi. Il barnabotto doveva aver rubato l’Omphalos per rivenderlo. Non era abbastanza intelligente, aveva detto Eliardo, per pensare di utilizzarlo lui stesso. Se era così, prima di incontrare la contessa, per essere ben preparati, era utile coinvolgere l’acquirente, che con ogni probabilità doveva saperlo usare.

«Siamo d’accordo», aveva concluso Mellan, alla fine. «Consegnateci la contessa e sarete libero».

Van Axel aveva riposto le pietre e i soldi nel portamonete di fustagno e lo aveva gettato addosso a Eliardo con disprezzo. Il capitano, nel suo borioso aspetto saccente, aveva continuato a indugiare solo e soltanto sul diasporo, che aveva tenuto per sé, e non sul vero Omphalos.

Scrutando verso il cielo offuscato dalla nebbia mattutina, l’alchimista avrebbe voluto sorridere. Non lo aveva fatto.