Capitolo 48
Da qualche parte nel territorio della Repubblica di Venezia.
Colpi lontani e sommessi lo strapparono dal suo sonno tormentato. Sopra di lui, un raggio di luce solitario filtrava da un’apertura del tetto e attraversava un groviglio di ragnatele.
Eliardo era sdraiato su un giaciglio rigido, dolorante e sudato. Con ogni probabilità doveva avere la febbre alta. Provò a muoversi, con l’unico effetto di riacutizzare dolori in ogni parte nel corpo.
Era scalzo, indossava soltanto le brache eleganti che aveva scelto per il ricevimento e a cui era appeso il suo portamonete di fustagno. Era a dorso nudo, con una vistosa fasciatura candida che partiva dal gomito sinistro per arrivare quasi fino al collo. Qualcuno doveva averlo medicato.
Altri colpi, questa volta più vicini.
Eliardo non si mosse, ma cercò di orientarsi: si trovava in una stanza disadorna, impregnata d’odore di sangue e urina. Una commode vetusta, sulla quale era poggiato un vaso da notte, era addossata a una parete tempestata da macchie d’umidità. Accanto alla finestra, coperta da una tenda tarlata, c’era una sedia di legno e un candelabro con candele consumate, tutte spente.
“Dove sono?”, si domandò, passandosi una mano sulla fronte imperlata di sudore. “Quanto tempo è passato?”.
Non era in grado di rispondere a nessuna delle domande che gli divoravano il senno; almeno per la seconda, però, l’aura di luce fuori dagli scuri lenì il suo tormento: era giorno e quindi erano trascorse diverse ore.
«Guardate di là», una voce roca lo riportò al presente. Subito dopo udì altri rumori, come di qualcuno che apre e chiude con violenza dei cassetti.
«Devono essere da qualche parte», proseguì la voce. «Siamo su un’isola, per Dio, come sono arrivati se ne devono pur andare. Perquisite ogni burco, ogni persona, ogni nobile, ogni gondoliere. Questa volta non ci deve sfuggire».
Eliardo si alzò su un gomito. Le voci erano oltre la porta chiusa, che si aprì proprio in quell’istante in un tremolio cigolante.
«Messer Trevisan», chiamò un arsenalotto dalla pelle scura, avvolto in un tabarro. «Si è svegliato».
L’alchimista deglutì a fatica e sbattendo le palpebre attese fino a che sulla soglia comparve un uomo. Era basso e tozzo e non lo conosceva. A differenza del suo compare, era però elegante, con camicia di pizzo, calzoni e panciotto ricamati sulle tinte dell’oro. I capelli neri erano tenuti insieme da un solitario.
«Vi sentite meglio, messer Eliardo?», lo salutò Cesare Trevisan, avvicinandosi al giaciglio. Allungò la mano per sfioragli la fronte. «Scottate ancora».
«Chi… siete?», balbettò l’alchimista, la voce impastata.
«Non è importante», lo riprese la spia. Dietro di lui, altri arsenalotti avevano cominciato a guardare in ogni angolo, spostando rumorosamente i mobili e scrutando perfino dietro agli infissi. «Dov’è Madame d’Aumale?»
«Dove mi trovo?», incalzò Eliardo, invece di rispondere alla domanda che gli era stata posta.
«Avete frainteso la situazione, messer», con finta galanteria, l’uomo tirò a sé la sedia e vi si sedette a cavalcioni, piazzando i gomiti sullo schienale. «Sono io che faccio le domande, non voi».
L’alchimista rimase impassibile. Oltre la porta della camera si notavano altri uomini e tutti erano impegnati a cercare qualcosa. Ovviamente la pietra di Madame d’Aumale. Ricordava di averla veduta, mentre la prendeva da uno scrigno. Poi era intervenuto Grimaldi: c’era stato un tafferuglio e il resto si dissolveva nella nebbia.
«Dov’è la vostra amica?»
«Non ne ho idea», rispose, sincero. «Non ricordo nulla di quanto è avvenuto dopo lo scoppio».
«La contessa vi ha fatto caricare sulla sua caorlina ed è fuggita. Ecco cos’è successo».
«Mi avete medicato voi?». Con il mento, l’alchimista indicò la vistosa fasciatura.
«Oh, certo che no». Trevisan si carezzò il naso aquilino, osservando il mobile sul quale erano posti alcuni attrezzi da chirurgo. C’era una bacinella d’acqua, stracci sporchi e fasciature nuove accatastate ordinatamente. L’operazione doveva essersi svolta proprio lì, nel tempo intercorrente tra la fuga e il loro arrivo. «A essere onesti, non siamo persone molto caritatevoli, se intendete quello che voglio dire. Non ricordate proprio chi si è preso cura di voi?»
«Ve l’ho detto, non ricordo nulla».
«Ricominciamo», propose Trevisan, con una calma posticcia. «Siete d’accordo?».
Ricominciamo cosa? Eliardo si lasciò cadere sul guanciale. Ogni battito del suo cuore gli pulsava dolorosamente nelle membra.
«Siete stato ferito e la vostra amica vi ha portato qui a Murano. Qualcuno, su suo incarico, deve avervi medicato». La spia si fermò, per assicurarsi che l’alchimista, con la testa reclinata all’indietro, lo stesse ancora ascoltando.
«Quindi siamo a Murano…», sospirò lui, con un filo di voce e senza muoversi.
«Esattamente. Per vostra fortuna, l’imbarcazione di Madame d’Aumale era una veloce caorlina con sei rematori, mentre noi avevamo solo due gondole di palazzo dei Camerlenghi. Orbene, la donna ci ha lasciato indietro e si è diretta qui. Non sapevamo dove si fosse nascosta, fino a che alcuni cittadini devoti alla Repubblica non ci hanno suggerito di guardare in questo edificio, attiguo a una vetreria dismessa». Trevisan sorrise. «Ma alla fine eccoci: voi in effetti siete dove ci aspettavamo, ma la contessa e il suo servitore invece non ci sono…».
Dall’altra stanza, uno degli uomini gesticolò con la mano, attirando l’attenzione di Trevisan.
«Trovato qualcosa?»
«Niente, messer. La casa è disabitata e non c’è traccia…». L’arsenalotto non proseguì oltre, per paura di parlare troppo di fronte all’alchimista, ora cosciente.
«Notizie dai posti di blocco?». Trevisan tenne un tono pacato, ma dentro di lui, il livore per essersi fatto sfuggire di nuovo la donna lo stava divorando. «L’hanno trovata?».
L’uomo fece un cenno di no e la spia tornò a fissare il giaciglio di Eliardo.
«Tutti abbiamo assistito alla scena su campo San Giacomo», ricapitolò. «La vostra amica ha trovato un oggetto prezioso che appartiene all’uomo per il quale lavoro e se ne è appropriata». Trevisan tacque, cercando con cura le parole giuste. Ma più parlava, più aveva la sensazione che da un muro avrebbe potuto ottenere risposte migliori. «La domanda quindi è: dove si trova la vostra amica? Non può andare via da Murano senza che la scoviamo e certamente ha con sé il gioiello».
«Come vi ho già detto… non so rispondevi. A quanto pare voi ne sapete molto più di me». L’alchimista era sfinito e richiuse gli occhi, respirando a fatica. La ferita al braccio adesso aveva cominciato a dolergli in maniera più pungente e sopra le bende era comparsa una macchiolina scarlatta.
«Va bene». Trevisan si alzò in piedi, spazientito. Per quanto fosse contrariato, una cosa era certa: de Broglie diceva la verità. Con ogni probabilità, non potendo fuggire con lui ferito senza essere vista, la donna lo aveva semplicemente abbandonato al suo destino.
«Non mi sento molto in forma…», mormorò ancora Eliardo. Provò ad allungare una mano, per avere un improbabile aiuto da Trevisan. Ma la spia si ritrasse come avrebbe fatto in presenza di un lebbroso. Non aveva mosso mari e monti per accudire un infermo, che oltretutto non sapeva nulla.
Ancora prima che uscisse dalla stanza, l’alchimista era svenuto di nuovo.