Capitolo 20

Campo San Giacomo, sestiere Santa Croce. Contemporaneamente.

Mezz’ora dopo l’Ave Maria.

 

Nonostante l’ora, lo speziale Alvise Quintavalle era ancora al lavoro.

Sapeva che restare lontano dalla sua bottega Alla Mano d’Oro non giovava agli affari, ma c’era una cosa a cui non poteva resistere: il vizio. Dopo un incontro galante del pomeriggio con un dodicenne, aveva però deciso di tornare per un paio d’ore alla bottega. Doveva ancora completare la lavorazione della Teriaca, la preparazione più imitata e per la quale era conosciuto.

«Possiede virtù quasi magiche ed è capace di guarire ogni tipo di male», era solito ripetere Alvise ai suoi clienti, che provenivano da tutto il Veneto ma anche da Francia e Germania. «Dalle coliche addominali alle febbri maligne, dall’insonnia fino ai morsi dei serpenti. È adatta persino a prevenire la lebbra e la peste».

Medicinale di uso antichissimo, si raccontava che la ricetta della Teriaca fosse stata ritrovata da Pompeo Magno nella casa di Mitridate, re del Ponto. Successivamente era stata usata da re e imperatori e perfezionata proprio a Venezia, dove agli ingredienti originali erano stati aggiunti oppiacei di origine orientale.

A dispetto di tutte quelle leggende, Quintavalle non l’aveva mai usata. Era un uomo ancora abbastanza giovane e in forze e, se si eccettuava qualche piccolo disturbo, poteva dire di essere in salute.

Abbigliato con brache rosse e una giubba biancastra, dal colore simile a quello della sua pelle lentigginosa, si aggirò nella bottega con una lanterna in mano. L’ambiente era composto da tre locali: il primo era il negozio vero e proprio, affacciato sul campo. Arredato con pesanti mobili a parete in radica di noce scura, sugli scaffali campeggiavano decine vasi in maiolica decorata d’azzurro. Essendo chiuso, lo speziale si diresse nella stanza attigua, il laboratorio. Era lì che doveva completare il lavoro al mortaio.

Si avvicinò agli alambicchi che luccicarono alla luce crepitante della fiammella, e armeggiò con il pestello e una selezione di spezie che teneva sul fornello.

Fuori c’era un momento di requie. Solo di tanto in tanto, qualche schiamazzo lontano e risate sguaiate lo distraevano dal suo lavoro. Fino a che un fragore accentuato dal silenzio non echeggiò sul batacchio.

Quintavalle sbuffò. Non era insolito che si trovasse lì a bottega chiusa, e gli abitanti della parrocchia in caso d’urgenze spesso richiedevano la sua attenzione.

«Chi è?», grugnì, continuando a pestare nel mortaio.

Non ci fu risposta ma subito dopo bussarono nuovamente.

Depositò il pestello sul banco da lavoro, si pulì le mani con uno strofinaccio e a grandi falcate si diresse alla porta. Tolse le sicurezze di metallo e aprì quel tanto che bastava per vedere fuori.

Non c’era nessuno e campo San Giacomo, considerata l’ora, era deserto.

Eppure…

Spalancò l’uscio del tutto e si affacciò sulla soglia per vedere meglio al chiaro di luna. Davanti al collegio De’ Medici alcuni venditori di frìtole occupavano il plateatico con i loro banchetti. Dall’altra parte, un paio di crocchi di plebei discuteva animatamente e alle loro spalle sopraggiungeva un gruppetto di fanti in divisa. A parte loro, di fronte alla bottega non c’era anima viva. Per un istante credette di avere udito male e non convinto fece per muovere alcuni passi sul campo. Ma non vi riuscì. Una mano possente lo afferrò da dietro, dall’attaccatura del collo.

«Chi è?», provò a domandare, voltandosi.

Ma lo sconosciuto era troppo forte. Con la coda dell’occhio si capiva che era più alto di lui, almeno di tutta la testa. Il mantello però era troppo corto e sul viso aveva una moretta simile…

«Chi siete?», domandò ancora, sentendosi sollevato di peso.

Non ottenne risposta e l’unico risultato tangibile fu che, nonostante la sua resistenza, il gigante lo trascinò all’interno della spezieria. Lo spinse per terra e serrò il battente con calma serafica.

Da quella posizione, indietreggiando carponi, Quintavalle riconobbe con certezza la maschera e il mantello. Erano i suoi! E pensandoci bene, lo sconosciuto poteva essere proprio il ladro. Tutto era successo due sere prima al Casin degli Spiriti: mentre lui era appartato con quel giovane zuccherino, un uomo lo aveva derubato di quegli indumenti. Tra un bacio e altro, lo aveva perfino veduto a viso scoperto.

«Ci siamo già visti», provò a dire Quintavalle. «Quella è la mia moretta… e quello il mio mantello».

Per tutta risposta, il gigante estrasse dalla cintura una lama lunga come un braccio, con la punta arrotondata.

«Teneteli. Teneteli pure», si affrettò a correggere il tiro Alvise, balbettando. «Cosa volete fare?»

«Impedirvi di raccontare ciò che avete visto», fu la risposta baritonale, che non ammetteva repliche.

«Ma io…», piagnucolò Quintavalle, che indietreggiando era arrivato carponi fino al laboratorio, «io, non ho parlato con nessuno… non ho neppure denunciato il furto!».

Lo sconosciuto avanzò, scuotendo il capo dietro la maschera. «Forse voi no… ma temo che qualcuno abbia parlato al posto vostro!».

Quintavalle non comprese a cosa si stesse riferendo lo sconosciuto. E di certo non gli interessava… Raggiunto il bancone, individuò però un coltellaccio affilato. Era troppo lontano e quindi gli sarebbe servito un diversivo. Sempre che il gigante non decidesse di agire prima…

«Non so di cosa parlate», bofonchiò per prendere tempo.

Lo sconosciuto lo ignorò e alzò la daga, che però restò a mezz’aria.

Qualcuno stava bussando alla porta. Ancora.

Un briciolo di speranza animò lo speziale. Approfittando della momentanea distrazione si alzò di scatto e rovesciò il bancone tra lui e l’aggressore. Gli alambicchi di Murano andarono in frantumi in una sinfonia di vetri rotti.

Preso alla sprovvista, l’aggressore ringhiò. Quintavalle ne aveva approfittato per rintanarsi nel terzo ambiente. Da lì avrebbe potuto forse fuggire attraverso la piccola finestra che si affacciava sul rio.

Ancora colpi sul batacchio, questa volta seguiti da una voce. «Messer Alvise, so che ci siete».

La lampada ardeva poco lontano dalla finestra, quindi da fuori probabilmente si vedeva una lama di luce.

Il gigante scavalcò il bancone ed entrò nell’ultima stanza, illuminata da una fila di candele. Lo speziale era in piedi, con la gambe larghe e un coltellaccio da macellaio tra le dita.

«State lontano», minacciò. Ma la mano gli tremava e il tono della voce era tutt’altro che deciso.

Le sue parole non ebbero dunque l’effetto atteso. Lo sconosciuto fece un passo e, prima che Quintavalle riuscisse a opporsi, rovesciò la lama come la scure di un boia. La mano armata dello speziale si staccò completamente dal polso, spruzzando fiotti di sangue caldo sulle pareti. Il coltello cadde in un rimbombo acuto.

Quintavalle si ritrovò incredulo a osservare il braccio monco. Ma la sua sorpresa non durò molto. Il fendente successivo fu scoccato all’addome. La camicia si lacerò, da parte a parte, impregnandosi immediatamente di color vermiglio.

Ci fu un momento di silenzio, occupato solo dal gocciolio del sangue che cadeva sul pavimento. Un istante dopo, però, un nuovo tonfo rimbombò nella bottega. Un rumore diverso dal precedente.

Immobile con la daga insanguinata in mano, lo sconosciuto prestò l’orecchio a quanto stava accadendo. Non stavano semplicemente bussando. Stavano percuotendo il battente con qualcosa. Un ariete?

Quintavalle nel frattempo era ancora stoicamente in piedi, l’addome lacerato e lo sguardo perso nella mano sul pavimento. Ciononostante si rifiutava di morire.

Il gigante grugnì, infastidito, e caricò un altro affondo, questa volta all’altezza del cuore.

Fu il colpo di grazia: si udì uno scrocchio, lo speziale barcollò in avanti e si riversò prono a terra, una macchia rossa che si allargava sotto di lui. La daga, però, gli rimase conficcata nel costato.

«Messer Quintavalle, sono Lodovico Van Axel», ripeté la voce sul campo. «Sono il capitano degli zaffi. Apra».

A quelle parole, il gigante trasalì. Voltò il corpo dello speziale con un calcio e afferrò l’impugnatura della daga con entrambe le mani. Era un uomo estremamente forte ma ciononostante non riuscì a spostarla di molto. La lama arrotondata pareva incastrata tra le ossa.

“Riprova!”.

Incerto, ruotò ancora l’arma bianca nel busto insanguinato, sempre con maggior enfasi ma sempre con il medesimo risultato.

E in quel momento, dopo un nuovo schianto dell’ariete sul battente, la serratura della bottega cedette.