Capitolo 40

Prigioni nuove, San Marco, giovedì 16 luglio 1761.

Un’ora dopo l’alba.

 

La mattina in cui Eliardo fu rilasciato, il cielo era una cappa grigia del colore del ferro.

Faceva un caldo asfissiante, ma sempre meno di quello che aveva patito nella cella dei Piombi, resa rovente dalle pesanti lastre metalliche sul tetto. Certo, avrebbe potuto andargli anche peggio: sarebbe potuto finire nei Pozzi, al pian terreno del palazzo. Ma non era successo, e soprattutto, quasi inspiegabilmente, quella mattina stessa il secondino gli aveva annunciato che era un uomo libero.

E adesso si trovava sul ponte della Pagia, ammaccato, sporco e accaldato.

Per quale ragione era stato rilasciato? Grazie alle sue rivelazioni, gli zaffi avevano forse trovato la gemma rubata a Madame d’Aumale?

Improbabile. Aveva sì fornito elementi utili, ma pensare che fossero stati da soli sufficienti era decisamente troppo ardito.

Se non era così, allora, forse, avevano trovato un altro colpevole. O più probabilmente, lo avevano rilasciato solo per tenerlo d’occhio, nel tentativo che si tradisse in qualche modo.

«Avete passato una piacevole nottata?». Lucia, la domestica al servizio di Madame d’Aumale, era a pochi passi da lui, davanti al molo di San Zaccaria. Indossava un sobrio abito sulle tinte del rosa e un mantello che le cingeva le spalle. Gli parlò con tono affabile mostrando gli incisivi bianchissimi.

«Forse dovrei ringraziare proprio voi, per essere finito in prigione», ribatté Eliardo, con sarcasmo.

«Cosa avrei dovuto fare, mentire agli zaffi?». Allargò le braccia, ma non dette affatto l’impressione di essere dispiaciuta. «Credo che dovreste prendervela con Beata, più che con la mia persona…».

Eliardo scacciò quella frase con un gesto della mano, come se dovesse liberarsi di un moscone fastidioso. Era troppo stanco per preoccuparsi di chi fosse la colpa. Non in quel momento, almeno. «È stata la contessa a farmi liberare?», domandò.

«Non che io sappia». Lucia si spostò di un passo, facendo cenno all’alchimista di salire sulla gondola, che ondeggiava legata alla briccola. «Si preoccupa però della vostra salute, e vi offre la sua ospitalità per darvi modo di riprendervi velocemente».

«E aiutarla per i suoi affari», sottolineò Eliardo. Cosa doveva fare? Accettare l’invito della donna cui aveva cercato di addossare la colpa di tutto o tornarsene a casa e provare a dimenticare?

Per quanto la seconda opzione lo solleticasse, sapeva benissimo che buttarsi alle spalle quella vicenda era impossibile. Ormai era troppo coinvolto. Tanto valeva accettare la proposta di Madame d’Aumale e passare qualche notte da lei. Poteva essere anche una buona occasione per cercare di sapere di più su quella vicenda: se c’era una cosa che aveva compreso durante l’interrogatorio, era che lui svolgeva un ruolo da comprimario. Era né più né meno di una pedina e la cosa non gli piaceva affatto. Soprattutto perché se gli avessero rivolto altre accuse, avrebbe dovuto essere in grado di dare risposte convincenti.

«E io accetto con piacere», fece eco, infilandosi sotto la rassa. «Andiamo alla Giudecca?».

 

 

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La gondola virò e con rapidità imboccò il canale, destreggiandosi tra le molte imbarcazioni che affollavano la laguna davanti a piazza San Marco. Il ponte votivo per la Festa del Redentore, che collegava le due estremità del tratto di mare, era interrotto nella parte centrale per consentire il passaggio delle imbarcazioni. Lo inforcarono proprio da quell’apertura e in pochi minuti attraccarono alla Giudecca.

I giardini, un vero e proprio eden all’interno delle isole della Serenissima, li accolsero con uno scintillio di colori e aromi. Percorsero un lungo pergolato di viti, fiancheggiato da pini d’Aleppo e alberi di Olea, e raggiunsero così il palazzetto gotico della contessa.

«Bene arrivato», lo salutò con un sibilo una delle domestiche che Eliardo aveva già adocchiato un paio di giorni prima. Era anziana, con una crocchia di trecce che gli cingeva la nuca, occhi blu che spiccavano tra la pelle rugosa e un sorriso sdentato. Tra gli incisivi aveva una finestra così ampia da farci passare un dito e da fare assomigliare ogni sua parola a un fischio. «La vofstra camera è pronta».

La vostra camera.

Definirla così era certamente un eufemismo, ma l’alchimista se ne rallegrò ugualmente.

«Vi afspetta un bagno caldo».

 

 

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Un’ora più tardi, profumato e abbigliato con gli indumenti da damerino che tanto gli piacevano, Eliardo era affacciato al finestrone della sua camera. Le tende sventolavano alla piacevole brezza mattutina e la vista sul vigneto era impareggiabile, con gli odori dell’uva matura che salivano pungenti fino alle narici.

Gli sembrava quasi di vivere un sogno e per un istante, solo uno, si sentì perfino in colpa ad aver scaricato la responsabilità su Annika durante l’interrogatorio. Evidentemente lei non lo aveva saputo, altrimenti un’accoglienza simile sarebbe stata impossibile…

Subito dopo però ricordò anche perché lo aveva fatto. Per salvarsi prima di tutto. Ma anche perché si considerava un burattino e lei, quali che fossero i suoi affari, lo stava semplicemente manovrando.

“Bene”, si disse. Ufficialmente poteva anche convenirgli apparire un utile idiota e giovarsi di quell’ospitalità, ma la verità era che doveva saperne di più. A cominciare dal caseggiato al confine della tenuta.

I brusii e i bisbiglii, che provenivano da quella strana costruzione, gli stessi che l’avevano incuriosito due giorni prima, erano sempre lì. Nulla di eclatante, ma un tiepido sottofondo di parole sussurrate che, nonostante i rumori della città, erano comunque chiaramente percepibili.

Osservò ancora l’edificio. Distava circa duecento passi dal palazzetto ed era costruito a ridosso di uno dei muretti della vigna. Aveva un unico piano, una fila di finestre alte e un tetto vagamente arrotondato coperto di coppi rossi. La porta, un semplice doppio battente di legno, era sul lato corto e davanti non c’era nessuno.

Aveva già valutato l’ipotesi che si trattasse di un filatoio o una vetreria, ma più guardava il caseggiato più si convinceva del contrario.

Senza rifletterci su, uscì dalla sua camera e imboccò lo scalone di marmo, ticchettando con i tacchi. I domestici non erano nell’androne lucente quando lui lo attraversò, così non dovette dare spiegazioni.

Uscì dalla casa e si avvicinò alla costruzione, che dal basso era completamente nascosta tra le vigne. Se non l’avesse scorta dalla finestra, probabilmente non l’avrebbe neppure notata.

Percorso il pergolato si avvicinò, furtivo, alla porta.

Da lì i rumori erano più percepibili: un vociare simile a quello di un mercato, forse.

Incerto se aprire la porta, decise che prima valeva la pena sbirciare da una delle finestrelle laterali. Impacciato dalla velada e dalle calze di seta, si arrampicò su una delle travi che sorreggevano i pergolati. Quando raggiunse una visuale sufficientemente chiara dovette però fermarsi di colpo perché gli mancò il fiato.

Che razza di posto…?

Sulle prime, attraverso il vetro, ebbe l’impressione di trovarsi davanti alla strana platea di un teatro, con tutte le sedie gremite di uomini a testa china. C’era però una differenza: davanti a ciascuna fila, erano collocati lunghi tavoloni, coperti di fogli di pergamena. Tutti gli occupanti stavano seduti ordinatamente e, muniti di penne d’oca, scrivevano numeri, senza sosta, all’interno di strane tabelle.

Non c’era un palcoscenico, ma dalla parte opposta rispetto all’entrata, si notava un pulpito rialzato: lo occupava un uomo di mezza età, di spalle, che con tono piatto recitava una specie di preghiera. La parete era di ardesia nera e, con l’aiuto di un gesso, stava tracciando righe e numeri, tanto grandi da potere essere letti dalla parte opposta del salone. No, non stava pregando: forse dava suggerimenti mano a mano che scriveva.

Nei pochi secondi che restò arrampicato sulla pergola, Eliardo notò anche che gli scribi alternavano occhiate spente al muro per poi tornare sui loro fogli. Tutti borbottavano e parlavano a mezza voce, come se stessero leggendo libri invisibili. Di tanto in tanto, altri addetti in brache di tela passavano dai tavoli, sussurravano qualcosa, ritiravano i fogli e ne lasciavano altri bianchi.

In bilico sulla vite, Eliardo contò rapidamente quante erano le persone sedute: dieci file e in ciascuna dieci occupanti.

Cento uomini dallo sguardo vacuo, impegnati a scrivere numeri su numeri. Cosa diavolo stavano facendo?