Capitolo 65

Palazzo Ducale. Alcune ore dopo.

Mezzodì.

 

La splendida Sala dello scudo, l’ambiente dove il doge teneva le udienze e gli incontri ufficiali, risplendeva del sole di mezzogiorno. La piccola delegazione di ottomani se la sarebbe aspettata gremita di gentiluomini in marsina e calze di seta, ma in quel momento invece era completamente vuota. Avanzando in silenzio sul pavimento rosso lucente, furono attratti dalle carte geografiche cinquecentesche che campeggiavano sopra i dossali lignei.

«Rappresentano i viaggi dei veneziani più celebri», spiegò il doge, che entrò proprio in quel momento dalla Sala Grimani, scortato dagli alabardieri e dal Missier Grande. «Dall’Italia al Mediterraneo, dall’Egitto alla Turchia, fino all’Asia. Oltre ai nostri possedimenti, naturalmente». Era minuto di corporatura, con la pelle cadente, rugosa e bianca come il latte. Abbigliato con le insegne della Repubblica, il mantello dorato e il corno ducale sul capo, si accomodò stancamente su un divanetto informale.

«Serenissimo principe», esordì Murat Uçar, elegantissimo nella sua lunga tunica bianca. Come i due attendenti che lo accompagnavano, si inchinò il meno possibile. «Sono onorato di avere ricevuto il vostro invito».

Immobile nei pressi dello stemma araldico della sua famiglia, raffigurato sullo scudo che dava il nome alla sala, Loredan inspirò a lungo. «Siete in città da qualche settimana, mi dicono. Era giunto il momento che ci conoscessimo».

Il turco si limitò ad annuire impercettibilmente, ma spostò lo sguardo sulla toga di Mellan, che accanto al doge stava ritto come un pilastro.

«Per quanto apprezzi la vostra ospitalità, principe», continuò Uçar, «stento a credere che il motivo sia solo conoscermi».

«Avete ragione», ammise Loredan. Ne approfittò per studiare meglio il turco: chissà perché se lo era aspettato più alto. Uçar, invece, seppur elegantissimo nella sua tunica, era basso e grassoccio. «È proprio per questo motivo che ho chiesto al Missier Grande un auxilium per questo incontro».

Mellan fece un passo avanti e porse un incartamento al turco. Era una lista di nomi.

«Li dovrei conoscere?»

«Sono cinque arsenalotti, bruciati vivi e i cui corpi sono stati ritrovati a Mira», chiosò Mellan, con calma. «Assieme a quelli di altri sessantasei uomini dall’identità sconosciuta».

Uçar strabuzzò gli occhi, sorpreso. «E io come posso esservi utile?»

«Sappiamo che Cesare Trevisan lavora per voi… e le vedove di quei cinque veneziani, pace all’anima loro, confermano che gli sfortunati lavoravano proprio per Travisan».

«Mi state accusando di qualcosa?». Il tono basso di Uçar si sfece improvvisamente acuto ma non perse sicurezza. «Se aveste voluto incarcerarmi non mi avreste invitato nel palazzo Ducale, immagino».

«È… così infatti», lo rassicurò Loredan, che a ogni parola sembrava sempre più affaticato. «Siamo disposti a dimenticare quanto fatto notare dal Missier Grande, in cambio di un vostro piccolo aiuto».

«C’è un altro documento che dovreste vedere», aggiunse Mellan, che questa volta mostrò al turco il solito foglio di carta pergamena, in cui era raffigurata una tabella colma di numeri. «Vorremmo che voi ci aiutaste a comprenderne il significato».

«Cosa vi fa credere che io sappia interpretare questo documento?»

«Sappiamo che ha acquistato la pietra… Nessuno investirebbe tanti soldi se non sapesse per cosa è possibile usarla».

Uçar spostò il peso da un piede all’altro fissando i due collaboratori che lo avevano accompagnato. Avrebbe potuto negare, ma forse non valeva la pena. «Sono grato del vostro invito, principe», proclamò quindi, «ma non mi è chiaro cosa ci guadagno ad aiutarvi».

«La libertà, per cominciare».

Il turco sorrise con un’espressione da attaccabrighe. Tanto arrogante che a nessuno, in circostanze normali, sarebbe stato consentito di rivolgersi in quel modo al doge. Ma quelle circostanze non erano affatto normali. «Come vi ho già detto…», disse, studiando le mani tremebonde di Loredan, «non avete prove per dimostrare il mio coinvolgimento. E senza prove, sarebbe alquanto sconveniente fare un tale affronto all’Impero che io qui rappresento».

Il doge si accigliò, limitandosi ad attendere che fosse Mellan a prendere la parola. «Non è nostra intenzione compromettere i rapporti con il Levante», ammise quest’ultimo. «L’incontro di oggi aveva proprio il fine di instaurare una collaborazione utile a entrambi».

«Affrontiamo… la questione da un prospettiva diversa», propose alla fine Loredan. «Voi avete informazioni e noi, se ci aiuterà, abbiamo… un modo per farvi avere la pietra».

«Non me la consegnereste mai».

«Sì, invece». Il doge raccolse tutta la sua capacità di persuasione, e proseguì. «Siamo a Venezia: il commercio è alla base della nostra tradizione. E poi Lex loci contractus, la nostra legge vi tutela, visto che avete legittimamente acquistato un bene che non vi è ancora stata consegnato». La parola “legittimamente” fu pronunciata con meno vigore della altre, quasi il doge stentasse a credere alle sue orecchie. Volutamente, omise anche di accennare al fatto che il contratto era stato stipulato con chi non era il proprietario, Grimaldi, e in seguito a un furto…

Uçar sembrò tuttavia apprezzare il riguardo, perché rimase immobile con un sottile sogghigno che gli sfiorava le labbra. Le rassicurazioni del principe gli avevano dato qualcosa su cui riflettere: Trevisan era ormai compromesso e sull’alchimista non era sicuro di poter fare affidamento. L’opzione di Loredan risolveva insieme due problemi: trovare la gemma e portarla a Costantinopoli, addirittura con il consenso della Serenissima.

Rinfrancato, puntò le pupille nere verso le quattro finestre ad arco, oltre le quali si vedevano gli scorci dei palazzi, e poi annuì. «Va bene. Cosa volete sapere?».