Capitolo 61
Nei pressi di Oriago, sulle rive del Brenta. Poco dopo, sabato 18 luglio 1761.
Prima dell’alba.
Esausto e in preda ai brividi per la febbre, Eliardo si rigirò nel letto della locanda. Lontano si udiva lo sciabordare di un fiume e, fuori dagli scuri sprangati, di tanto in tanto si sentivano galli cantare. Per il resto, l’edificio era del tutto isolato tra le paludi dell’entroterra e immerso nel silenzio.
“Cosa ci faccio qui?”.
Non era una domanda posta a casaccio e naturalmente l’aveva rivolta a Lucia, che l’aveva atteso sul molo di Mira solo poche ore prima.
«Sarete stanco», l’aveva salutato la giovane, «avete bisogno di riposo. Domani riceverete notizie su cosa fare».
«Avete organizzato voi la mia fuga?».
La ragazza, avvolta nel suo mantello, l’aveva fissato con i suoi occhioni da cerbiatto ed era rimasta inespressiva. O non sapeva nulla, oppure era stata istruita per non dargli spiegazioni. In entrambi i casi la sua presenza era quantomeno sospetta.
«Cosa ci faccio qui?», aveva sbottato Eliardo, sospirando. «Sono la marionetta della vostra padrona. Non è così? Che cosa vuole ancora da me?»
«Alla mia padrona state molto a cuore, ecco tutto», gli aveva sorriso la ragazza, enigmatica. «È per questo che mi ha chiesto di assicurarmi che passiate una notte piacevole o tranquilla. A vostra scelta».
Eliardo era rimasto per qualche istante immobile, a riflettere sulla parola piacevole, pronunciata da Lucia. In qualunque altro giorno della sua vita, probabilmente avrebbe gradito la licenziosità di quella proposta, ma non quella sera. Era solo, febbricitante e con gli ottomani di quel Trevisan alle calcagna. Non era neppure sicuro di potersi fidare della contessa.
«Direi che per questa volta scelgo la tranquillità», aveva risposto, ripromettendosi di riacquistare le forze per poi decidere con lucidità cosa fare. Subito dopo era salito sulla carrozza e il cocchiere aveva spronato i cavalli, lanciandola sulle stradine buie e fangose attorno al Brenta. Non avrebbe saputo dire per quanto tempo avessero galoppato nella notte, tra acacie, betulle, paludi e fattorie isolate, ma alla fine si erano fermati. L’insegna, illuminata da una stanca lampada a olio, diceva semplicemente “Màgna e tasi” – mangia e sta’ zitto – e oltre all’edificio principale di due piani, sotto il cielo nero si stagliavano la ruota di un mulino e la sagoma di un granaio.
E adesso si trovava lì, nella camera singola al primo piano della locanda, la cui pigione era stata pagata in anticipo dalla ragazza. Non era un posto di gran lusso, soprattutto per chi era abituato ai palazzi veneziani. Con le sue colonne in pietra, le travi di legno e il porticato popolato da tavoli e panche, se non altro era però in sintonia con la campagna circostante.
“Cosa ci faccio qui”, si domandò ancora, mettendosi supino e tornando a fissare il tetto spiovente.
Di una cosa era certo: benché Lucia non l’avesse minimamente confermato, la sua fuga da Venezia, la mendicante, il messaggio, il burchiello… tutto era stato organizzato da Madame d’Aumale. «Domani riceverete notizie su cosa fare», si era limitata a dire. Ma quella frase non spiegava però l’aggressione di Rudolf. E soprattutto, come poteva sapere la contessa che lui sarebbe fuggito dal rio de San Barnaba e proprio a quell’ora?
Era un labirinto di domande alle quali non poteva dare risposta, ma a quel punto tanto valeva attendere le nuove istruzioni.
Si girò ancora nel letto e questa volta dovette soffocare un urlo di dolore. La ferita al braccio trasmetteva fitte lancinanti ogni volta che solo osava fissarla.
“Maledetta ferita”.
Anche quella rappresentava una bella incognita. Era stato medicato a Murano subito dopo lo sparo di Grimaldi, ma appena tornato in città, Rudolf aveva provato ad aprirla con il suo quadrello.
A quella scena il cervello di Eliardo si bloccò di colpo, rifiutandosi di spingersi oltre con l’immaginazione. E non fu certamente per il ricordo del dolore provato.
«A Murano ci avete stupito». Le parole di Trevisan sulla gondola gli tornarono prepotentemente in mente. «Non credevamo vi sareste riavuto così in fretta e per questo avete evitato le nostre perquisizioni a tappeto».
Perquisizioni a tappeto.
Era possibile…?
Si mise seduto sul letto, fino a toccare con i piedi scalzi il pavimento. Si era infilato tra le lenzuola a dorso nudo, quindi la fasciatura al braccio era visibile, in disordine e chiazzata di rosso a causa dell’ultima aggressione. Non aveva osato toccarla per il dolore, ma lo fece in quel momento, sfiorandola appena con l’indice e il medio. Si alzò di scatto e su una commode ai piedi del letto, accanto a una tinozza con l’acqua, trovò una candela, che accese. Lo specchio ossidato che sormontava il mobile gli restituì l’immagine di un uomo esausto, con le occhiaie e i ricci scombinati.
Perquisizioni a tappeto.
L’ultima cosa che ricordava del giovedì precedente era che Madame d’Aumale e il suo scagnozzo avevano trovato la gemma appena prima dell’intervento di Grimaldi. Poi c’era stata la detonazione, lui era stato caricato su una gondola ed erano fuggiti a Murano.
Aprì il cassettone della commode, per cercare qualcosa che facesse al caso suo, ma era vuoto. Si voltò e fece una veloce perlustrazione della camera. Era talmente piccola che gli bastarono pochi istanti: non c’era nulla che andasse bene.
In preda alla febbre che lo divorava, uscì quindi sul ballatoio del primo piano. La scala di legno che scendeva nel bàcaro era alla sua sinistra. La percorse tutta tra gli scricchiolii e si ritrovò nel locale vuoto rischiarato dalle prime luci dell’alba. I tavoli erano già apparecchiati per il giorno successivo e sopra il bancone erano appesi prosciutti e lardo. Poco sotto, trovò ciò che gli serviva: afferrò un coltello a lama piatta e tornò in camera.
«Non credevamo vi sareste riavuto così in fretta…». Più ripensava a quelle parole, più l’idea che aveva avuto gli sembrava malsana.
Fece mente locale su ciò che rammentava di Murano. Poco, in realtà, ma quando aveva ripreso conoscenza si trovava sotto i ferri di un chirurgo che gli stava medicando il braccio. Al suo capezzale ricordava bene i volti tesi della contessa e del suo scagnozzo. Nel ricordo successivo era in compagnia invece di Trevisan, che non aveva mai visto fino a quel momento. I suoi gaglioffi stavano mettendo a soqquadro la casa, in cerca della gemma, e la contessa non c’era più.
Lo avevano fatto davvero?
Infilò il coltello sotto la fasciatura e la tagliò, rendendo visibile la ferita, gonfia e sporca di sangue rappreso. La sutura era lunga come un dito, grossa e raffazzonata, e sembrava la chiusura di un insaccato. Il filo da seta era stretto attorno alla pelle, che trasudava liquido giallognolo.
Si infilò la cintura tra i denti e con la punta del coltello tagliò il primo punto.
Il dolore fu acuto e intenso come un pugno nello stomaco. Resistette e guardandosi attraverso lo specchio continuò a tagliare. Era madido di sudore e mentre il sangue colava sul mobile, le gambe presero a tremargli. Ma proseguì. Non fu necessario rompere tutta la medicazione che il gonfiore accennò a diminuire.
Eliardo imprecò, stringendo i denti attorno al cuoio. Lavò il coltello nel catino d’acqua e poi con la mano pulita carezzò la ferita. Il dolore fu meno intenso, ma successe qualcosa di inaspettato: il rigonfiamento non era affatto diminuito, solamente si era spostato da una parte all’altra della ferita.
Aveva ragione. Non si trattava di gonfiore dovuto ai malsani liquidi corporei.
Dando fondo a tutto il suo coraggio inserì nuovamente la lama nella lesione putrescente. Fece leva poco alla volta, avanzando lentamente sotto la pelle. Sentì subito qualcosa di duro, e senza troppa fatica riuscì a spostarlo. Al secondo tentativo, un piccolo oggetto a forma di uovo, grande come un acino d’uva, saltò fuori dal braccio e rotolò sul pavimento.
Un conato di vomito lo assalì ma si costrinse a ricacciarlo in gola. Qualcuno aveva nascosto un oggetto dentro la sua ferita.
Lo raccolse da terra e lo buttò nella tinozza con l’acqua ormai di colore rosa. Pulì il sangue rappreso con un po’ di fatica, ma quando finì poté riportare l’oggetto alla luce ambrata della candela.
Ecco spiegata l’aggressione di Rudolf e l’attenzione di Madame d’Aumale: l’avevano semplicemente usato come cavallo di Troia. E la ragione adesso era lì, tra le sue dita insanguinate: aveva trovato la gemma.