Capitolo 12

Taras, Magna Grecia, 361 a.C.

2122 anni prima…

 

La morte. Punto di partenza e punto d’arrivo.

Da sempre era stato proprio il fenomeno della morte a stimolare i filosofi a porsi le domande più ardue. Perché moriamo? Cosa ne è della coscienza dopo la morte? Il contatto con il mondo invisibile dà finalmente il modo di conoscere la Sophia, la sapienza?

Archita di Taras, di ritorno da Delphi, si era posto nuovamente tutti quegli interrogativi, senza essere in grado di darsi delle risposte.

Il viaggio dopo il colloquio con la pizia era stato lungo e non privo di insidie. Cabotando lungo l’Aetolia e la Thesprotia, il filosofo si era lasciato alle spalle il bel tempo per trovare un principio di autunno sulle coste della Magna Grecia.

La mattina in cui rimise piede nella sua città faceva freddo e gli schiavi dovettero estrarre dai bagagli un pratico chitoniskos di lana.

Per riprendersi dal viaggio aveva deciso che avrebbe trascorso alcuni giorni nella sua grande tenuta affacciata sul mare sulla strada per Kallipolis. Ne avrebbe anche approfittato, si era detto, per verificare che il fattore e i servi si fossero presi cura della terra.

Quando il carro raggiunse il podere, notò però che le cose non erano andate, durante la sua assenza, come avrebbe voluto.

«Chiamatemi Poliarco», strillò ai servi oltre il cancello. Già da lì in cima, si notava incuria nei cespugli e sporcizia attorno alla grande casa. Anche lo steccato a strapiombo sul mare era scrostato in più punti.

«Purtroppo, stratego, Poliarco non è qui», singhiozzò un uomo di mezza età, calvo e con le mani lungo i fianchi.

Archita, già contrariato per le parole della sacerdotessa, aggrottò la fronte. Socchiuse gli occhi verso il golfo, in quel momento solcato dal riflesso argenteo del sole, e attese in silenzio una spiegazione.

«È morto. Pochi giorni dopo che te ne sei andato», aggiunse il servitore. «Si è ammalato e non c’è stato nulla da fare. Non ha potuto prendersi cura della casa…».

Il filosofo trasalì. Da sempre aveva avuto un bellissimo rapporto con tutti i suoi servi. Scherzava a tavola con loro e quelli più capaci erano persino invitati a partecipare ai suoi simposi. Poliarco, poi, era più che un semplice servitore. Era un amico. Un altro degli amici che se ne andava prematuramente…

I giorni seguenti, Archita si chiuse nelle sue stanze, lontano dalle voci dei suoi cento discepoli. La mattina osservava il mare scurirsi e le foglie degli alberi diventare sempre più gialle. Le giornate diventarono più brevi e buie, esattamente come il suo umore.

E non era solo la scomparsa del suo servitore, che ancora una volta lo aveva spinto ad affrontare il tema della morte. Erano anche e soprattutto le parole della pizia, che conferivano a quel funesto avvenimento una luce differente.

«Distruggi l’arma, che tanti danni recherà agli uomini e alle greggi», aveva vaticinato la sacerdotessa. Non che non ci avesse pensato, ma era una decisione difficile da prendere. Il motivo per il quale si era messo in viaggio fino a Delphi.

La morte come punto di partenza e punto di arrivo, quindi?

Senza volere, tornò con la mente a quando si era trovato per la prima volta a doversi confrontare con un’altra scomparsa prematura: Gavri’el, la sua nutrice. Da quello sfortunato evento di trent’anni prima tutto aveva avuto inizio…

 

 

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«Tu sei un uomo coscienzioso», cercò di consolarlo il suo amico Platone, di passaggio da quelle terre nel suo viaggio verso Siracusa. «Sai cos’è il bene».

«Ed è per questo che non sono in armonia con me stesso». Camminando lungo la spiaggia a piedi nudi, Archita diede un calcio a un sasso, che rimbalzò sulla superficie trasparente. Era uomo di potere, che da diversi anni si fregiava del titolo di stratego, la maggior carica militare greca; era giovane e valoroso. Eppure, la morte di una serva era stata capace di cavare dalla sua mente i pensieri più bui e foschi.

«Dovresti confrontarti con Dionisio», scherzò Platone, nel tentativo di tirargli su il morale. «Pare che faccia progressi nella filosofia».

«Mi è stato riferito della sua lettera…».

Platone si rabbuiò per un istante. «Appunto, la lettera di un sovrano: solo lui poteva affermare che se non vado a Siracusa la nostra amicizia si sarebbe rotta. Ed eccomi qui, con timori e cattivi presentimenti». Platone si fermò, osservando l’alba sul mare. «Ma parliamo invece di te: sai cosa penso? Che il cosmo percepibile dai nostri sensi è la minima parte, e ora la tua Gavri’el ne ha invece preso completa coscienza».

«Eppure continuo a essere dispiaciuto per lei. Mi rimprovero del fatto che magari avrei potuto fare qualcosa».

«Nessuno avrebbe potuto. Tutto si può cambiare, ma non l’ineluttabile».

Archita non parve convinto. Come Platone pensava che il raggiungimento della saggezza si potesse conseguire solo con la morte. Eppure, sentirla così vicino a sé non gli permetteva di essere lucido e sereno.

«Il senso della vita lo si ottiene proprio quando smettiamo di respirare. Comunque io so perché sei triste, amico mio».

Il politico si fermò, con i piedi sul bagnasciuga, pronto ad ascoltare quella spiegazione che lui stesso non riusciva a darsi. Certo, rispettava Gavri’el, la considerava una persona eccezionale che aveva saputo affrontare la malattia con dignità. Quando era in salute aveva sempre fatto ciò che lui le aveva chiesto con il sorriso sulle labbra. Dopotutto, però, non erano così intimi…

«Per te la matematica è il fondamento della realtà naturale e dell’universo», precisò Platone. «È per questo che non riesci a capacitarti del significato della morte, che non vedi, che non puoi sperimentare. Che non puoi dimostrare».

«Forse hai ragione», assentì Archita, dopo una lunga riflessione. «I princìpi delle matematiche sono i princìpi di tutti gli esseri…». Mentre pronunciava quelle parole, le sue labbra rallentarono. Ebbro, il cuore cominciò a palpitargli con maggiore insistenza.

Era possibile? Platone, senza volere, gli aveva dato uno spunto su cui riflettere?

I numeri erano il fondamento di tutte le cose, di ciò era certo… Ma anche della vita e della morte, quindi?