Capitolo 21

Campo San Giacomo, sestiere Santa Croce. Pochi istanti prima.

Mezz’ora dopo l’Ave Maria.

 

Il suono del batacchio rimbombò nella tranquillità del campo.

Lodovico Van Axel, alla testa di tre fanti della Quarantìa, sollevò la lanterna che teneva in mano per illuminare l’ingresso della bottega. Pur indossando la divisa completa di tabarro e stivali al ginocchio, anche quella sera era privo di parrucca: i capelli castani erano così raccolti in una stretta coda, tenuta insieme sulle spalle da un solitario.

«Messer Alvise, so che ci siete», chiamò, qualche istante dopo aver bussato.

Nessuna risposta, anche se, a giudicare dalla luce che filtrava attraverso gli scuri, all’interno della spezieria sembrava esserci qualcuno. E infatti, un rumore di vetri infranti confermò il sospetto.

I militari si guardarono incerti. Era caduto qualcosa? Stavano andando ad aprire?

Van Axel si augurò che stesse arrivando Quintavalle in persona. La lettera di Marcello Lin era stata un dono del cielo, tanto gradita quanto inaspettata. Oltre al nome dello speziale, aveva infatti aggiunto informazioni importanti.

La maschera rosa, innanzitutto. A quanto pareva, Quintavalle ne indossava una simile al tavolo da gioco. Certo, poteva essere un caso che l’ottomano visto dalla mendicante ne portasse una simile, ma c’era un dettaglio in più. Il fatto interessante era che proprio quella sera lo speziale era stato derubato sia della moretta che del mantello.

Perché qualcuno, già all’interno del Casin, avrebbe dovuto rubare indumenti necessari per entravi? La risposta era fin troppo semplice: per non usare i suoi ed evitare quindi di farsi riconoscere.

Se le cose stavano così, l’ipotesi più probabile era che l’assassino avesse seguito il povero Naso fin dal Casin degli Spiriti. E le notizie, oltretutto, non finivano lì.

“Pare che il Nostro abbia veduto il ladro della maschera molto bene”, aveva rivelato Lin nella lettera. Quello era un dettaglio fondamentale: se il nobile aveva ragione, lo speziale poteva forse riconoscere l’ottomano. Sempre ammesso, ovviamente, che il gigante biondo descritto dalla mendicante fosse realmente un turco.

I rumori provenienti dall’interno della spezieria si fecero più prossimi ma nessuno aprì. Van Axel fece quindi cenno a due fanti di mettere in posizione l’ariete. Il primo colpo non produsse risultati, ma la porta oscillò producendo uno scricchiolio netto, come un osso che si spezza.

«Messer Quintavalle, sono Lodovico Van Axel», provò con voce autoritaria. «Sono il capitano degli zaffi. Apra».

Ancora una volta, l’unica risposta furono molesti rumori provenienti dall’interno.

Il capitano dette nuovamente ordine ai militari e questi assestarono qualche altro colpo sulla serratura, che infine cedette.

«Ehi», gridò Van Axel, appena dentro. «Chi è là?».

Un’ombra si mosse furtiva nell’altra stanza, ma fu impossibile raggiungerla immediatamente: la bottega era ingombrata da un grosso bancone rovesciato, circondato da vasi infranti e schegge di vetri. Oltre, si intravedeva un lago di sangue con una mano mozzata che vi galleggiava al centro.

Un istante più tardi, le candele furono spente da una folata d’aria.

Sguainata la spada, il capitano scavalcò il bancone e con un balzo raggiunse la stanza attigua. La finestra in alto era aperta, ma la sua attenzione per un istante fu catturata dal corpo martoriato di un uomo abbigliato da speziale. Era piegato su un fianco e si notava il naso aquilino e la pelle bianca punteggiata di lentiggini rosse. Dal costato fuoriusciva una grande spada con la lama ricurva.

«Di qua», urlò Van Axel, correndo verso la finestrella. La stanza era interrata e l’apertura si trovava poco sopra il livello del rio di San Boldo.

Sgattaiolò fuori con agilità, aggrappandosi agli archetti che sorreggevano le inferriate, e si ritrovò con gli stivali in bilico sui masegni delle fondamenta. L’aria sul corso d’acqua era torrida e immobile, con le poche imbarcazioni che beccheggiavano placide. Dell’ombra che aveva visto fuggire non c’era però traccia.

Per un momento rimase a disagio, girando su sé stesso al chiarore pallido della luna.

Era certo di quanto aveva veduto. Qualcuno si trovava nella bottega proprio mentre loro bussavano, ed era riuscito a scappare giusto un istante prima che entrassero. Possibile però che fosse scomparso nel nulla?

Senza nutrire grandi speranze, diede ordine ai fanti di passare al setaccio i paraggi, dalle guglie dei palazzi fino ai portali d’acqua. Nella mezz’ora che seguì, non venne però trovata anima viva.

«Se davvero l’ottomano è stato qui, l’abbiamo perso per poco», commentò alla fine Van Axel. Rientrato nella spezieria era ora concentrato sul corpo di Quintavalle. «Assieme all’unica persona che poteva riconoscerlo…».

Accosciato, sfiorò con i guanti la spada, che ancora pendeva dal costato dello speziale: oscillava appena, come un chiodo in un foro più largo. Ciononostante, era incastrata tra le ossa della cassa toracica. Dall’impugnatura e dalle strane decorazioni sulla lama, sembrava proprio turca…

«Se la daga è ciò che sembra, presto saremo costretti a coinvolgere gli inquisitori».