Capitolo 29

Palazzo dei Camerlenghi. Nello stesso istante.

Primo pomeriggio.

 

Senza troppo badare alla diplomazia, Lodovico Van Axel si lanciò all’inseguimento.

Conosceva l’uomo che aveva veduto accanto al cadavere di Sandei. Alto, pupille verdi, lineamenti androgini. Era identico al ritratto dell’alchimista, adocchiato il giorno precedente nella casa a Dorsoduro. Era, inequivocabilmente, Eliardo de Broglie.

Quando Mellan gli aveva chiesto di assicurarsi che l’arma usata su Sandei fosse la stessa di Quintavalle, Van Axel non aveva certo immaginato di trovarselo di fronte. Poiché la sepoltura del futuro zaffo era stata fissata per quello stesso pomeriggio, non ci sarebbe stata altra occasione se non quella di andare direttamente alla camera ardente. Aveva quindi chiesto l’autorizzazione a far controllare il cadavere da uno dei chirurghi dell’ospedale dei Santi Pietro e Paolo e, in compagnia di alcuni birri, era entrato nel palazzo.

«È solo?», aveva domandato a tre suore, che confabulavano nell’androne di fronte alla porta chiusa.

Alle spiegazioni incerte delle religiose aveva risposto afferrando la maniglia. Entrando, alla testa dei suoi uomini, aveva così assistito a quella scena surreale: non ne era sicuro, perché tutto si era svolto davvero molto in fretta, ma gli era parso che de Broglie stesse frugando… nella bocca del morto.

E adesso era lì, lanciato lungo le scale, dietro un uomo che aveva deciso di fuggire appena l’aveva visto.

«Fermatevi!», gli intimò, divorando i gradini. Si era infilato in una porticina laterale e ora si trovava in un’angusta scala, fiancheggiata da pareti in mattoni grezzi. «De Broglie, fermatevi!».

Ma l’altro non accennò minimamente a rallentare. Era veloce e svoltò a destra, imboccando un’altra rampa, se possibile ancora più buia e stretta.

«Vi ho riconosciuto: so che siete voi», lo avvisò ancora Van Axel, raggiunto il mezzanino. Per tutta risposta l’alchimista superò senza fatica e con ampie falcate un’infilata di stanze austere. Fuori dalle finestre protette da pesanti inferriate di metallo, scorrevano le fondamenta de la Preson.

Van Axel provò ad aumentare il passo, scivolando con gli stivali bagnati sul pavimento lucido. Lo vedeva sempre più distante, ora in fondo a un lungo corridoio arredato con mobili cinquecenteschi. All’improvviso, però, la sua preda fu costretta a rallentare perché si trovò d’innanzi a un capannello di domestici. Ma non si fermò del tutto. Lo intravide schivarli con un movimento serpentino, e poi lo perse quando superò un grande portone di noce.

 

 

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Con il fiatone che gli spezzava il respiro nel petto, Eliardo si fermò per un istante, cercando di orientarsi. Senza sapere come, scendendo per la scala di servizio e voltando senza posa nelle stanze del mezzanino, doveva essere tornato al punto di partenza. Si trovava nell’androne centrale, con l’uscita a sinistra, lo scalone a destra e saloni riccamente decorati esattamente di fronte.

Lanciò un’occhiata fuori: nonostante il diluvio torrenziale che ancora imperversava sul ponte di Rialto, due birri presidiavano l’ingresso. Non lo avevano visto perché gli davano le spalle. Sulla scala invece si udivano passi concitati, come di qualcuno che scendeva velocemente. Non aveva scelta: si cacciò il tricorno sul capo e, camminando svelto, andò verso le stanze dei Camerlenghi.

Entrato nella prima, un gruppo di impiegati seduti a pesanti scrivanie ingombre di timbri e sigilli lo guardò con sufficienza.

Incerto, Eliardo sbirciò alle sue spalle. E il giovane inseguitore era lì, a poca distanza da lui.

 

 

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Van Axel, fermo sulla soglia, gli sorrise e mimò con le labbra tre semplici parole: “Siete-in-trappola”.

La fase di stallo, in cui i due si osservarono a distanza, durò però solo un istante: per tutta risposta, de Broglie si voltò dalla parte opposta e riprese a correre. Lo spazio tuttavia era poco, e fu costretto a salire in piedi sui grandi tavoli da consultazione.

Si alzò qualche grido di biasimo, ma l’alchimista li ignorò, saltando tra uno scrittoio e l’altro. Alcuni dipendenti furono costretti a spostarsi per non essere travolti.

Non potendo fare altro, anche Van Axel balzò sul mobilio facendo cadere pile di documenti.

«Non avete scampo!», gli urlò ancora. Ma come in precedenza il giovane non lo degnò di risposta. Nel frattempo aveva superato la prima stanza ed era entrato nella successiva. Anche lì c’era un gran fervore, ma Van Axel non vi badò, perché l’inseguito nel frattempo era scomparso di nuovo alla vista.

 

 

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Eliardo salì senza fermarsi su un’altra scala, più piccola e ripida della precedente, e si ritrovò nell’ennesima stanza con stucchi bianchi, quadri e ori alle pareti. A differenza delle precedenti però, l’unica altra porta, bianca e smaltata, era sbarrata. Si avvicinò d’impeto e provando ad aprire si rese conto che era chiusa. Non poteva aprirla con la sua chiave, che era destinata ai soli passaggi per la servitù.

Imprecò, mentre con ansia teneva d’occhio l’entrata da cui era arrivato: i passi del suo inseguitore erano sempre più vicini.

Era in trappola.

A meno che…

Spalancò il finestrone affacciato sul Canal Grande e si arrampicò sul davanzale. Fuori diluviava ancora e proprio in quel momento il cielo venne sfregiato da una saetta dorata.

Uscì del tutto. In bilico sul cornicione fradicio, contò le finestre che lo separavano dal ponte di Rialto. Erano a gruppi di tre, con una quarta decisamente più lontana. Anche riuscendo a percorrere tutta la facciata aggrappato come un ragno, in fondo avrebbe dovuto saltare.

“Che situazione!”. Per la seconda volta in tre giorni si trovava sospeso sul Canal Grande. Completamente inzuppato, fece saettare gli occhi in basso. Oltre la punta del tabarro sventolante riuscì a individuare solo una peota da carico, che arrancava sulle acque agitate del canale. Poteva sperare di riuscire a balzarvi sopra? Decisamente no. Si aggrappò così ai pilastrini e passò alla seconda finestra e poi alla terza.

«Fermatevi», gli ingiunse, appena affacciato, lo zaffo.

Eliardo non si voltò, ma ormai in ogni caso non era più possibile tornare indietro. Si asciugò il viso con la manica e a quel punto una delle sue calzature scivolò sul marmo umido. Senza sapere come, si ritrovò a penzolare nel vuoto.

 

 

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«Tenetevi!», alzò la voce Van Axel, proteso fuori dalla finestra. Provò a tendere un braccio, ma senza successo.

Valutò se uscire anche lui sul cornicione, ma Eliardo era troppo lontano. Così tornò all’interno. La porta che dava sulla sala attigua, da cui avrebbe potuto raggiungerlo più facilmente, era chiusa. Cercò allora qualcosa da lanciargli in aiuto.

Si avvicinò a un grande tendaggio damascato e provò a strappare il legaccio di raso. Al primo tentativo non ci riuscì.

«Aiuto!», udì, fuori. La voce fu sovrastata da un tuono.

Provò ancora a strappare il supporto e al secondo tentativo ebbe successo, con il risultato però di far cadere sul pavimento l’intera tenda.

Corse di nuovo alla finestra e si affacciò, proteso verso la sua preda. Con sorpresa, però, Eliardo non c’era più.

Sulle prime pensò fosse caduto. Controllò verso il canale, ma anche lì, a parte i cerchi concentrici formatisi per la pioggia e le onde, non si notavano movimenti anomali.

Van Axel deglutì, tornando a fissare le enormi finestre drappeggiate sulla facciata del palazzo. Erano tutte sbarrate: se non l’avesse ritenuto impossibile avrebbe giurato che l’alchimista fosse scomparso nel nulla.