Capitolo 59
Sulle rive del Brenta, meno di un’ora più tardi.
Tarda sera. Ora italica 4:15.
In fondo alla cabina del burchiello, Eliardo era abbandonato in uno dei salottini. La grande imbarcazione partita da Venezia era semivuota e, fiancheggiando le ville patrizie disseminate tra la vegetazione, procedeva placida risalendo il fiume. Qua e là splendevano le luci di feste o ricevimenti, ma perlopiù la navigazione avveniva nell’oscurità, rotta solo dalle ombre dei salici mossi dallo scirocco.
Alla fine, quando si era trovato impalato sul molo, con il battello in procinto di partire, si era deciso a salire. Non sarebbe arrivato sino al capolinea, ma sarebbe sceso molto prima, a Mira, esattamente come gli chiedeva il biglietto.
Si sentiva come una bottiglia di vetro in balia delle onde, alla mercé del gioco di qualcuno. Un gioco che aveva un fine ancora non del tutto chiaro: salvarlo dagli inseguitori? Condurlo da qualche parte? Fargli del male?
Sospirò, concentrandosi sulla vetrata aperta da cui penetravano forti folate del vento caldo che si era appena alzato. Fuori, il paesaggio scorreva ritmico: alberi, arbusti, porticcioli e… ville. Era in quella zona che d’estate i nobili cercavano un po’ di frescura e così l’intera riviera si trasformava in una piccola, ma non meno sfarzosa, Venezia. Dovevano trovarsi nei pressi di Fusina, a giudicare dal molo di legno e da alcuni dei palazzi di marmo che si vedevano oltre il greto.
Cosa avrebbe fatto una volta giunto a Mira? Se tutto fosse andato come fino a quel momento, qualcuno forse gli avrebbe suggerito dove andare.
Si concentrò sull’interno della sontuosa cabina. Forse quel qualcuno era già lì. Si paralizzò. Purtroppo si sbagliava; tutto si sarebbe aspettato tranne che di scorgere ciò che in effetti vide: dalla parte opposta un volto conosciuto stava avanzando deciso verso di lui.
«Dove eravamo rimasti?», ridacchiò Cesare Trevisan, rubizzo in viso.
La carrozza sobbalzò sulla strada sconnessa per Mira. I cavalli lanciati al galoppo nitrirono e Lucia, la giovane domestica di Madame d’Aumale, dovette aggrapparsi ai sostegni.
Poiché nonostante gli sforzi della Repubblica le paludi attorno al Brenta erano spesso territorio di briganti, la giovane era armata di una pistola a pietra focaia. La sapeva usare e l’avrebbe fatto se qualcuno si fosse frapposto tra lei e la sua missione. Un compito semplice, invero: riferire un banale messaggio a Eliardo de Broglie. L’incognita era se l’alchimista sarebbe in effetti arrivato a Mira. Nel caso la previsione della sua padrona fosse stata veritiera, come accadeva nella maggior parte dei casi, il suo compito era avvicinarlo… e convincerlo.
Il cocchiere tirò le redini in prossimità di una strada fangosa, che scendeva verso il fiume. La vegetazione era rigogliosa, ma oltre i rami scossi dal vento si vedeva la riva coperta di arbusti. Da lì in avanti avrebbero costeggiato il Brenta.
A Mira, la contessa d’Aumale si era rifugiata nella stalla. Gli egiziani, tra un colpo e un altro di pistola, avevano cominciato a elaborare i calcoli, chini sulle loro pergamene. Non erano stati contenti di spostarsi in tutta fretta dalla Giudecca, soprattutto dopo le numerose variabili che lei aveva chiesto di verificare recentemente. D’altra parte, però, erano ben pagati per quello che facevano e non avevano potuto opporsi. La sistemazione provvisoria, oltretutto, per quanto approntata in tutta fretta, concedeva loro le stesse comodità a cui erano abituati: lunghi tavoloni, sgabelli e le pile di carta pergamena. C’era persino il pulpito su cui sedeva il matematico di turno che, tracciando indicazioni con il gesso sull’ardesia, indirizzava le operazioni. Ciò che mancava del tutto era il silenzio e la tranquillità cui erano abituati. Soprattutto perché fuori era scoppiata una piccola guerriglia, fatta di spari isolati e piccole esplosioni.
Un nuovo colpo di pistola echeggiò nell’aria. Gli uomini vibrarono, spaventati, e la contessa serrò le dita attorno al pugnale che teneva in mano. Era sempre un passo avanti ai suoi inseguitori e nell’ultima ora, in cui era stata costretta a rifugiarsi tra quelle mura, aveva elaborato un piano, spedendo Lucia a Mira.
«Sono uomini del levantino», dichiarò ad alta voce. «Siete riusciti a vederli? Sono molti?», domandò a uno dei domestici, arroccato dietro una delle aperture del fienile con un moschetto tra le mani.
«Quattro, forse cinque».
«Avete fatto aprire le porte dell’oratorio?», si informò la contessa.
Non udì la riposta, perché una nuova palla, preceduta da un ciuffo di scintille, la costrinse a indietreggiare. L’edificio formava una sorta di L, e loro erano rifugiati oltre l’angolo, proprio sotto la scritta LDS, Laus Deo semper, che adornava la trave di culmine. Uno specchio posto in alto mostrava però il battente scorrevole, che si aprì di colpo, rivelando un nugolo di uomini armati. Stavano entrando: era giunto il momento. Carezzò il manto dei due levrieri e li slegò, affinché si scagliassero verso gli aggressori.
Lucia scese dalla carrozza nei pressi del pontile di legno di Mira.
Una costruzione di mattoni rossi e una banchina proteggeva le travi imperlate d’umidità. C’era un’unica lampada a rischiarare il fiume, appesa a una grande palina a ridosso dell’acqua. Tutt’intorno il buio la faceva da sovrano e il silenzio era rotto dall’ululato del vento, che aveva preso il posto del frinire di qualche cicala.
La ragazza si sporse oltre un cespuglio per riuscire a inquadrare meglio le rive frastagliate del Brenta, una striscia nera su cui era disegnato il riflesso mosso della luna.
Attese per alcuni minuti, camminando avanti e indietro come in una danza. Il suo abito all’andrienne, di seta soppannato di vaio, e il mantello svolazzante erano decisamente fuori luogo in quella situazione. Ma d’altra parte l’incarico affidatole dalla contessa aveva richiesto una sollecitudine tale da non consentirle di cambiarsi.
Un lontano scampanellio, simile a quello delle mucche al pascolo sulle montagne di Bolzano, richiamò la sua attenzione. Si affacciò al parapetto del pontile e in fondo scorse piccole lampare gialle che animavano la murata di una grossa imbarcazione. Era il burchiello. Stava arrivando.
I tangheri di Murat Uçar avanzarono di gran carriera all’interno del fienile, puntando i lunghi moschetti davanti a loro.
Sapevano che la contessa era nella stalla attigua. Si vedevano le luci e si univano bisbiglii. Sapevano anche che i numerosi uomini chiusi all’interno non erano armati.
A dispetto delle loro convinzioni, una detonazione, oltre una trave, li costrinse però a indietreggiare.
«Siete in trappola», annunciò il giannizzero a capo del drappello. Si acquattò dietro una balla di fieno, stringendo la mano a pugno per dare indicazioni ai suoi compari.
Uno degli arsenalotti si spostò di un passo ma non riuscì a farne un secondo che un cane gli azzannò il polpaccio. L’urlo fu più intenso di un colpo di arma da fuoco. Il compare provò ad aiutarlo, cercando di allontanare il levriero con il calcio del moschetto. Ma non riuscì nel suo intento, perché anche lui subì la stessa sorte: un altro cane dal manto bianco, identico al primo, balzò da dietro un muro a secco e gli azzannò il collo, ringhiando.
Lo sfregiato riuscì a scorgere la scena nella penombra. Sembrava di guardare uno strano balletto, fatto di scatti e spostamenti repentini, braccia, zampe, gambe che si aggrovigliavano una sull’altra.
«Ritirata», gridò, d’istinto. E indietreggiò nuovamente verso il parco.
«Eccoli», gemette il domestico di Madame d’Aumale, inquadrandoli con il moschetto appena furono tornati sull’erba piegata dallo scirocco.
«Aspetta ancora un attimo», gli consigliò lei. «Diderot! Voltaire!»
I due levrieri, che avevano seguito i due aggressori fino a fuori dal fienile, issarono le orecchie, lasciando immediatamente le prese.
Gli sgherri, improvvisamente liberi, indietreggiarono, strisciando come granchi.
«Diderot! Voltaire!», chiamò ancora i cani, che scattarono, rientrando prima nel fienile e poi nella stalla.
«Ci siamo», sorrise il domestico. Poggiò l’arma alla rastrelliera, accanto ai forconi, e afferrò la torcia ardente alla parete.
Gli aggressori, intanto, avevano ripiegato verso l’unico posto protetto del parco: l’oratorio, il piccolo luogo di culto che si erigeva sotto una grande quercia.
Madame d’Aumale occhieggiò nell’ombra. La porta era aperta come da sue istruzioni. La forma circolare dell’oratorio, con il tetto arrotondato e la grande croce di ferro sulla sommità, le ricordava una grossa botte. Era affezionata a quell’edificio ma d’altra parte non aveva scelta…
«Procedi».
Il servitore piegò la testa di lato, avvicinò la torcia alla miccia che aveva tirato poco prima e una scintilla lampeggiò veloce. Volò giù dal fienile, percorse la facciata e attraversò il parco, lungo il vialetto; un istante più tardi un bagliore divampò accecante, seguito da una violenta onda d’urto e da un boato che squarciò l’aria come un tuono.
Come da istruzioni, Eliardo scese dal burchiello a Mira. Fu l’unico a quell’ora a mettere piede sul pontile con le assi marce e coperte di alghe.
Si guardò attorno, al cono di luce dell’unica lampada. Era incerto su quale sarebbe stata la sua mossa successiva. Non fu necessario attendere molto per saperlo.
«Vi stavo aspettando, messer Eliardo», gli comunicò Lucia, indicando la carrozza sulla strada.