Capitolo 30

Palazzo dei Camerlenghi. Pochi istanti dopo.

Primo pomeriggio.

 

All’interno del palazzo, Eliardo tirò un sospiro di sollievo. Era stato fortunato, non poteva negarlo. Mentre era a penzoloni, con i piedi nel vuoto e le mani aggrappate a un pilastrino, uno dei domestici l’aveva notato.

«Aiuto!», aveva urlato, facendo oscillare la testa come un pendolo per attirare l’attenzione. E il suo movimento era servito: spalancata la finestra, un omino calvo e ossuto gli aveva teso la mano e l’aveva aiutato a rientrare. Purtroppo non aveva potuto ringraziarlo come si doveva, perché immediatamente si era rimesso a correre.

E adesso era lì, ancora negli uffici dei Camerlenghi de Comùn, con la chiave che gli aveva consegnato Beata tra le dita. In un angolo di quella che sembrava una stanza di rappresentanza, aveva trovato una delle porte usate dalla servitù.

Si voltò, ansimando, e provò a infilare la chiave nella toppa. La giovane domestica gli aveva assicurato che tutti quei piccoli passaggi avevano la stessa serratura, per consentire ai domestici di svolgere le loro mansioni senza disturbare le magistrature. Era proprio quella la ragione per la quale aveva incontrato la donna la sera precedente: sapendo di dover passare al setaccio l’intero edificio, aveva bisogno di un modo per muoversi agevolmente al suo interno.

Girò la chiave. Se Beata aveva detto il vero, la serratura si sarebbe aperta. E fu proprio così: con uno scricchiolio sordo l’ingranaggio scattò ed Eliardo fu lesto a infilarsi all’interno di un angusto corridoio. Sul muro ardeva una fioca fiammella e poco più avanti una scala a chiocciola scendeva nelle viscere del palazzo.

Richiusosi la porta alle spalle si avviò fino a raggiungere quelle che avevano l’aspetto delle cucine. C’era un grande camino spento e, dal tetto di travi basse, pendevano calderoni di rame. Sulla parancola massiccia, però, benché si notassero macchie di sangue, non c’era cibo.

No, si rese conto. Non era affatto una cucina. Con ogni probabilità era una delle stanze dove i domestici passavano il loro tempo e forse consumavano i pasti. Recentemente però, doveva essere stata usata per ben altri scopi… Su una sedia si notavano alcuni abiti eleganti dall’aspetto pregiato e un indumento bianco di seta, sporco di macchie rubino.

Eliardo si mosse circospetto. Era solo. Si avvicinò e prestò attenzione alla camisiola. Oltre a presentare evidenti tracce di sangue, era tagliata da parte a parte. Osservò gli altri abiti: un’elegante velada di broccato, con pizzi alle maniche, e scarpe con la fibbia. C’era anche il panciotto; da come gli erano stati descritti, sembravano proprio i vestiti di Naso. I domestici del palazzo dovevano averlo lavato e preparato per la camera ardente proprio in quella sala.

Quello era un altro colpo di fortuna. Un grande colpo di fortuna.

Senza indugiare, afferrò tutti i vestiti, li appallottolò e se li infilò sotto il mantello. Poi si cacciò il tricorno sulla testa e sorridendo cercò l’uscita.

 

 

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Pochi minuti più tardi, Van Axel rientrò con aria funerea nella camera ardente in cui lo attendevano i suoi uomini. Era fradicio di pioggia e di umore nero. Aveva cercato ovunque Eliardo, ma senza successo. Era abbastanza sicuro che non fosse caduto nel Canal Grande, quindi doveva essere riuscito a rientrare nell’edificio per poi scappare senza essere visto.

Mosse alcuni passi tra lo sgomento dei presenti e il primo ad andargli incontro fu Marcantonio Bognolini: il medico che aveva scomodato dall’ospedale dei Santi Pietro e Paolo per esaminare la ferita.

«L’arma che ha ucciso il ragazzo è senza dubbio la stessa», pontificò questi. Indossava l’abito nero del Collegio ed era un uomo dall’aspetto piuttosto grezzo, con due grandi mani da macellaio e un viso rotondo. A differenza dei medici fisici – che si limitavano a fare diagnosi e prescrizioni – lui era un chirurgo, abituato ad avere a che fare con amputazioni e ferite.

«Ne siete certo?». Van Axel spostò lo sguardo dal viso del chirurgo al catafalco di Zuanne Sandei. L’abito mortuario era stato aperto sul petto, affinché il taglio fosse ben visibile al chiarore dei ceri.

«Osservate voi stesso». Bognolini si avvicinò senza toccare il costato. «Vedete, da questa parte, dove la lama ha colpito la prima volta, la ferita è più profonda. Via via che ci si allontana, spostandosi verso destra, è però meno netta».

«E questo cosa significa?»

«Che l’arma aveva una lama ricurva». Il chirurgo afferrò la daga, che i birri avevano sistemato accanto al corpo, e mimò un colpo secco partendo dal cuore.

«Vi do atto che poteva quindi essere un coltello simile». Van Axel si avvicinò al cadavere, illuminato in quel momento dall’ennesima folgore del pomeriggio. «Come fate però a essere certo che sia proprio la stessa?»

«Osservando quei due lembi di pelle al centro della ferita: due escrescenze irregolari, simili a dentelli». Bognolini portò a favore di una fiamma la lama della daga. «Vedete, in questo punto e in quest’altro, la lama è scheggiata. Confrontando le proporzioni con la lesione, ci ritroviamo proprio in corrispondenza di quelle due imperfezioni, in un taglio altrimenti perfetto». Trattenne il respiro, sorridendo. «Un taglio chirurgico, direi».

Van Axel non sembrò apprezzare la battuta di spirito. L’osservazione era però pertinente: osservando bene le due escrescenze nella ferita, era chiaro che corrispondessero proprio ai due difetti di quella particolare daga.

«Capitano». Uno degli zaffi di Van Axel lo chiamò dalla porta. Accanto a lui c’era un omino minuto, pelato, che si fregava le mani nervosamente. «Ho qui il coadiutore del palazzo. Deve riferirvi un fatto».

Van Axel, frustrato per come si era messa quella giornata, si spostò dal catafalco e raggiunse l’omino. Gli abiti ancora bagnati gocciolarono sul pavimento di marmo. «Cosa avete da dire?»

«Ho aiutato io l’uomo che cercate», si lasciò andare l’inserviente, timoroso. «Stava per cadere dalla finestra e gli ho teso una mano per farlo rientrare».

Il capitano assunse un’espressione interessata. «Andate avanti».

«Dite al capitano cos’altro sapete», lo spronò il militare.

L’uomo annuì, ma non parlò. Nel momento in cui stava aiutando lo sconosciuto appeso sulla facciata del palazzo, si disse, non sapeva che era ricercato dai fanti. Non poteva quindi essere ritenuto colpevole di qualcosa. Oppure sì?

«Dite. Non abbiate timore».

«Forse so chi può averlo aiutato a fuggire».

«Cosa intendete?».

Il coadiutore rifletté bene prima di rispondere. «L’uomo che cercate aveva le chiavi della servitù, che aprono tutte le porte interne. Una come questa». Mostrò a Van Axel una lunga chiave ossidata. «Non avevo collegato subito le due cose, ma proprio questa mattina, una serva, un certa Beata Pinelli, mi ha confessato di avere smarrito la sua…».