Capitolo 33
Furàtola del vin, sestiere Dorsoduro. Più tardi.
Quattro ore dopo l’Ave Maria.
La bella Cecilia sistemò il bicchiere sul tavolone e si infilò le monete nel grembiule.
«Quanti anni hai?», biascicò un barnabotto male in arnese, in preda ai fumi dell’alcool. Aveva le gote rosse, che facevano da contraltare alla parrucca spelacchiata, e indossava una velada scolorita.
«Pensate a vostra moglie, messerin», lo riprese l’oste, da dietro il bancone. Conosceva quell’avventore squattrinato, che di tanto in tanto tentava approcci maldestri con Cecilia.
«Venite con me, abbandonate questa città afflitta da vizi e licenziosità», sbraitò quello, portando il goto alla bocca.
«Mio padre non potrebbe vivere senza di me», scherzò Cecilia, rassettando rumorosamente un tavolo vicino.
«Con le vostre doti, saprei io come rendervi felice…».
«Tenete a freno la lingua, Alvise», si intromise Eliardo, che proprio in quel momento aveva spalancato la porta della taverna. Una folata d’aria calda e di odore di cibo lo investì in pieno.
«Quale onor…», stava per dire l’oste, con uno strofinaccio in mano. Ma si bloccò di colpo: dietro de Broglie era infatti comparsa una dama, con un corpetto rosa, un’ampia gonna dello stesso colore e uno zendado di pizzo. Nonostante il viso fosse nascosto da una bauta, era chiaramente una gran signora: decisamente fuori luogo in quel tugurio.
«Credevate che sarei scomparso senza pagare i miei debiti, Agostino?», scherzò Eliardo, porgendo il braccio alla dama. Alla luce del camino acceso, si avvicinò al banco di mescita e vi poggiò sopra una ventina di soldi che teneva nel pugno.
L’oste aggrottò la fronte, diffidente. Nel frattempo la nobildonna sussurrò qualcosa all’orecchio di Eliardo.
«Ce ne sono altre, per voi», disse abbassando la voce l’alchimista, indicando le monete.
«Cosa volete?». L’oste poggiò i gomiti sul bancone, umettandosi le labbra secche.
«Che voi e vostra figlia ci raccontiate della sera in cui è morto Naso».
«Lasciate fuori Cecilia da questa storia».
«Se sarete esaustivi vi pagheremo».
Agostino cambiò immediatamente atteggiamento. «Dov’è il trucco? Non voglio guai io. Sapete che l’altra mattina sono stato svegliato dagli zaffi da barca, che mi hanno fatto domande proprio su quella sera?»
«Cosa vi hanno chiesto?», domandò Madame d’Aumale, facendo un passo avanti e uscendo dal cono d’ombra. La fiammella della lampada poggiata sul bancone le ondeggiò sulla maschera.
«Volevano sapere se il gondoliere avesse parlato con qualcuno… e io gli ho detto di voi, Eliardo».
«Cos’altro gli avete raccontato?».
L’oste si guardò attorno. In quel momento, se si eccettuava il morto di fame che aveva importunato la figlia, c’era solo un altro tavolo occupato da avventori sonnecchianti. «La verità, cos’altro potevo fare?»
«Avete parlato anche del biglietto che Grimaldi aveva chiesto fosse consegnato a Sandei?», fece Madame d’Aumale.
«Certo».
«Vostra figlia, quando scese dalle scale, raccontò che Grimaldi era dovuto andare via. Quindi doveva essere stato qui poco prima…».
«È così infatti», ammise l’oste, tirando fuori una bottiglia e versando in tre bicchieri una generosa dose di ratafià. Uno lo tenne per sé, gli altri li posizionò di fronte ai due. «Era qui poco prima che arrivasse Naso… e a differenza di quanto gli capita di solito, aveva anche pagato i suoi sospesi».
«Per quale ragione è scappato?», domandò ancora la donna da dietro la maschera. Per un istante le sue iridi avevano inquadrato il liquore, che danzava in un bicchiere palesemente bisunto. «Ha veduto qualcosa? Qualcuno è venuto a chiamarlo?».
A quella domanda Amadi si limitò a scuotere il capo, bevendo avidamente una sorsata. «Era al piano di sopra, non l’ho visto uscire». Il fare incuriosito dei due fu un incentivo a spiegarsi meglio. «L’ho visto solo quando è arrivato: ha lasciato i soldi, si è piazzato in una camera e poi deve essere sgattaiolato fuori dalla scala sul retro».
«E il biglietto? Cosa c’era scritto?», lo riprese Eliardo, scettico.
L’oste scosse il capo. «Non l’ho visto. Non lo so davvero».
«Non era sigillato: dovete averlo visto».
«Sentite, Amadi», rincarò la dose la contessa, allontanando educatamente il bicchiere sul bancone. «È questione di estrema importanza: Francesco Grimaldi potrebbe essere in pericolo e in quel biglietto forse ci sono informazioni per salvarlo».
«Francamente, che Grimaldi sia in pericolo a me interessa poco…».
Udendo quelle parole, Cecilia però si avvicinò di scatto.
«Quanto vale la vostra memoria?», strillò Madame d’Aumale. «Uno, due, dieci ducati?»
«Solo Dio sa quanto avrei bisogno dei vostri soldi». L’oste si carezzò i baffoni. «Purtroppo però vi ho detto la verità: non l’ho vist…».
«Avete detto che Francesco è in pericolo?», si intromise la ragazza, le mani strette sotto il seno. Il viso angelico era segnato dalla preoccupazione. «Io sì che l’ho veduto il biglietto!».
«Cosa c’era scritto?», le domandarono Eliardo e Madame d’Aumale simultaneamente.
La ragazza si mosse per il locale con aria distratta e poi girò attorno al bancone; afferrò un carboncino e, raccattato un pezzetto di pergamena, tornò dai due avventori.
«Non c’era scritto nulla…», specificò, mentre cominciava a tratteggiare linee arrotondate. Lavorò su uno schizzo per alcuni istanti, fermandosi di tanto in tanto. «Era un disegno», concluse alla fine, facendo scorrere il foglio sul bancone. «Ho buona memoria: era più o meno come questo».