Capitolo 26
Taras, Magna Grecia, 391 a.C.
2152 anni prima… Trent’anni prima del viaggio di Archita a Delphi…
Tutto poteva essere ridotto in numeri: i comportamenti delle persone, le loro ambizioni, ciò che desideravano, ciò che facevano e ciò che non facevano, quali amici o nemici, quali prede o avversità avrebbero incontrato. Per Archita, la scienza del calcolo era superiore, e di molto, a tutte le altre scienze e i princìpi delle matematiche erano i princìpi di tutti gli esseri.
La morte di Gavri’el e i colloqui con Platone avevano però aperto la strada a uno dei limiti di quel ragionamento.
«Mi rimprovero del fatto che magari avrei potuto fare qualcosa», aveva chiarito lui, parlando con il grande filosofo ateniese della morte della sua nutrice.
«Nessuno avrebbe potuto», aveva risposto laconico l’amico. «Tutto si può cambiare, ma non l’ineluttabile. Il senso della vita lo si ottiene proprio con la morte».
Ecco il punto: l’ineluttabilità della morte. Su quella, i numeri potevano poco, era imponderabile. Ciò che contava, aveva quindi teorizzato Archita, erano i nostri comportamenti per reagire all’imponderabile. Le nostre azioni, che in un modo o in un altro, avevano sempre delle conseguenze… Su quel principio, che sarebbe diventato il primo dei ventitré postulati del suo teorema, lui aveva già steso oltre dieci rotoli di papiro e ancora indugiava.
Erano ormai trascorsi tre mesi da quando Platone era ripartito alla volta di Siracusa, dove avrebbe incontrato il sovrano Dionisio. Invece di ritornare in città alle sue incombenze politiche, Archita però era rimasto nella sua villa sul mare.
Da poco era stato rieletto stratego, una carica importante. In teoria, nessuno avrebbe potuto ricoprirla per più di un mandato, ma i suoi cittadini lo avevano scelto nuovamente.
Le cariche politiche erano di due specie, per elezione e per sorteggio: le prime affinché fossero selezionati i migliori, le seconde perché tutti potessero parteciparvi. Ma Archita, a dispetto del fatto che fosse considerato proprio tra i migliori, in quel periodo aveva molto altro a cui pensare che non promulgare leggi.
Era un uomo con grandi qualità morali ed esercitava su di sé un severo autocontrollo e una ferrea disciplina. Nonostante avesse sempre dimostrato grande armonia interiore, il teorema che aveva cominciato a sviluppare non gli permetteva però più di dormire.
«Non è possibile», si ripeté ad alta voce, alzandosi dallo scrittoio, completamente avvolto nel buio della notte. Fuori dal suo porticato, sul mare invernale increspato, si rifletteva la luna piena. Faceva freddo, ma massaggiandosi le tempie uscì all’aria aperta a braccia nude.
«Padrone, qualcosa non va?». Estieo, uno dei servitori di guardia, impegnato a consumare un pasto frugale, gli andò incontro strisciando i calzari nella polvere.
Archita scosse il capo. Il suo volto era trasfigurato, stanco, con occhiaie scure come la pece.
«Padrone, devi riposarti», gli consigliò Estieo. «La tua dimostrazione ti sta distruggendo».
«Nessun dono, concesso dalla natura o da un dio, vale più della morte», gli rispose laconico il matematico. «È per questo che sto cercando di sviluppare il primo postulato».
Il servitore, un uomo giovane e con una mente brillante, che Archita aveva fatto partecipare a più simposi con lui, lo fissò al chiaro di luna. «Cerchi forse di sconfiggere la morte, padrone?», sospirò, incerto. «È questo che stai provando a fare? Una teoria per sconfiggere l’ultimo dei mali?».
Archita scosse nuovamente il capo e cominciò la discesa verso il mare. In fondo, sulla spiaggia di sabbia rossa che d’estate ardeva come la brace, una sola fiaccola rischiarava la via. «Se c’è una cosa che ho imparato in questi mesi, Estieo, è che la morte è imponderabile».
Il servitore, immobile, allargò le braccia, come a dire: “E quindi?”.
«È stato Platone a chiarirlo, durante la sua visita. Ma mentre la morte è invincibile, la natura e il cosmo che gli suonano intorno come strumenti musicali non lo sono affatto». Si voltò, e fece cenno al servitore di seguirlo sul piccolo viale in discesa. «Tutto può essere ridotto in numeri, tutto a eccezione della morte».
«E cosa ti inquieta così tanto, allora, padrone, se hai già formulato la tua teoria?».
Archita rallentò senza fermarsi. «La mente umana, caro Estieo. Il limite alla mia teoria è la mente umana».
«Padrone, credo di non capire».
«Tu sei giovane. Conosci i numeri e sai compiere con loro operazioni complesse».
Il servitore annuì.
«Ma per quanto puoi essere abile, ti fermi quando sei stanco. Non sei preciso. Puoi sbagliare».
Estieo sbatté le palpebre, non convinto del significato di quelle parole. Nel frattempo il filosofo aveva raggiunto la spiaggia. La sabbia era fresca e costellata di conchiglie. In lontananza, una barca di pescatori, annunciata da una fiammella tremolante, percorreva il golfo verso oriente.
«Il mio primo postulato ha troppe variabili per poter arrivare a una dimostrazione attendibile», proseguì Archita. «L’albero è troppo ramificato, troppo ampio per un uomo solo».
«Come dicevi tu, padrone, io sono abile con i numeri…».
Il filosofo si voltò di colpo, come se il servitore lo avesse colpito a una spalla.
«Come hai detto?»
«Non volevo essere irrispettoso, padrone… non intendevo certo dire che…».
«Hai detto che sei abile con i numeri?»
«Tu stesso, padrone, l’hai affermato». Estieo si fermò, insicuro. «Pensavo quindi che potrei esserti d’aiuto… Se non nella teoria, che compete certamente a te, almeno nei calcoli per la tua dimostrazione».
«Come ho fatto a non pensarci, Estieo?». Archita sorrise, inspirando di gusto l’aria salmastra. Si carezzò la barba e annuì convintamente. «Il doppio delle menti dimezzano i tempi; il quadruplo li riducono a un quarto. Più menti, più calcoli, meno tempo…».