Capitolo 5

Casin degli Spiriti, sestiere Cannaregio. Al calar del sole.

Ora dell’Ave Maria.

 

Ai veneziani era sempre piaciuta la bella vita e il gioco d’azzardo. Quella era la ragione per la quale in città prosperavano quasi centocinquanta casini. Ve ne erano di pubblici e di privati, destinati ai nobili o frequentati dai comuni cittadini. Alcuni erano dei veri postriboli dove ci si poteva intrattenere con le cortigiane, in altri i giochi del Faraone e della Basetta erano invece le uniche attrazioni.

Considerata da tutt’Europa la città licenziosa per eccellenza, con la crisi del commercio di inizio secolo, l’azzardo era diventato anche fonte di introiti per la Serenissima. Le case da gioco erano quindi non solo tollerate, ma anche per certi versi incentivate. Nonostante le più note fossero il Ridotto di San Moisè e il Casin dei Nobili, i veneziani preferivano quelle più piccole. Erano meglio gestite, dicevano, e tra feste e orge si giocava fino all’alba. Soprattutto erano le più discrete.

Ed era proprio quello il motivo per il quale all’imbrunire di quel sabato sera, Zuanne Sandei detto Naso era entrato al Casin degli Spiriti. Frequentato da musicisti e pittori, alcuni dicevano che si chiamasse in quel modo perché dalle sue finestre si udivano oscuri ululati dalla laguna e si scorgevano luci baluginanti. Secondo altri il suo nome era dovuto alla posizione isolata sulla punta di Cannaregio, dalla parte della Madonna dell’Orto. In un caso o nell’altro, era comunque ben frequentato e provvisto di camere foderate di specchi e vasche da bagno in marmo alla francese.

Con voce bassa e la bauta calata sul viso, Sandei aveva salutato i due barnabotti che svolgevano la funzione di croupier e si era seduto al suo solito tavolo.

Nel volgere di poche partite aveva già accumulato un discreto gruzzolo di zecchini a danno di uno speziale effeminato e del rampollo male in arnese di una nobile famiglia.

Quando tutto sembrava andare per il verso giusto era però arrivato un furlàn con un vistoso plico da consegnargli. Il postino, uno di quei friulani che battevano la città recapitando messaggi, aveva riferito di doverlo consegnare solo e soltanto a lui. Sandei l’aveva aperto, si era alzato e in rigoroso silenzio, come era d’uso in tutte le case da gioco, aveva guadagnato il giardino rischiarato dalle lanterne.

Dieci minuti più tardi aveva abbandonato i tavoli di palazzo Contarini dal Zaffo e ondeggiava a bordo di una gondola non sua. L’ultima cosa che udì, prima di addentrarsi nella Sacca della Misericordia, furono insolite urla concitate: qualcuno, a quanto pareva, aveva subìto il furto di un mantello e una maschera. Nulla, se paragonato a ciò che lo aspettava…

 

 

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Il remo affondò nell’acqua increspata e l’imbarcazione scivolò come un cigno nero sul Canal Grande.

Zuanne Sandei in piedi accanto alla forcola inspirò a pieni polmoni. Era un giovane irrimediabilmente brutto, con la pelle scura e un viso dominato dal naso adunco che gli aveva fatto guadagnare il suo soprannome. Non era veloce di testa e fin da ragazzino gli era stata impartita un’educazione militare: da figlio di uno zaffo da barca – i ministri di Giustizia che presidiavano il mare per contrastare il contrabbando – quella sarebbe stata anche la sua professione. Nell’attesa di entrare nel satellizio, per adesso si guadagnava da vivere facendo il gondoliere e subito dopo sperperava il salario con le prostitute e nei Casini.

Mentre governava l’imbarcazione tra le onde, ripensò allo scrigno ricevuto poco prima e ricapitolò mentalmente le istruzioni impartitegli con la lettera allegata.

L’appuntamento era quattro ore dopo il tramonto, quindi aveva abbastanza tempo per fare il lavoro e arrivare puntuale.

Il problema era un altro, e cioè se si poteva fidare di Francesco Grimaldi. Era vero, grazie a quel gaglioffo aveva trovato lavoro dalla gran signora francese; ultimamente però gli era parso sfuggente e meno propenso a scherzare e ciacolàre.

“Sta’ attento. Fa’ attenzione allo scrigno e non farte notare da nisuno”, aveva semplicemente scritto nel messaggio. Seguivano una serie di indicazioni su dove andare e come muoversi.

Naso, almeno per quella parte, non aveva problemi. La gondola, come si diceva a Venezia, era la sua casa, e anche da solo in poco tempo sarebbe riuscito a condurla dove gli aveva chiesto Grimaldi.

“Sta’ attento”, si ripeté. Ma a cosa esattamente?

Fissò lo scrigno sotto il felze e d’istinto si voltò verso Rialto. Era possibile che qualcuno si fosse accodato alla sua poppa? Quella caorlina nera che beccheggiava al centro di Canal Grande lo stava forse seguendo? Prima che potesse allarmarsi, l’imbarcazione però rallentò, accostandosi a un portale d’acqua.

Per fortuna si era sbagliato ma fu costretto a domandarsi cosa fosse il contenuto del piccolo scrigno. Qualcosa di illegale, forse? Come molti veneziani conosceva svariate storie sul temibile Tribunale degli inquisitori e quindi scacciò subito quell’idea. Doveva solo seguire le istruzioni e completare il lavoro, si ripeté, e avrebbe guadagnato quindici ducati d’oro.

E così fece: tre ore esatte dopo il tramonto si ritrovò lungo il rio de San Barnaba. Credeva di avere ormai finito quando sotto i lampioni ballerini adocchiò di nuovo la caorlina di poco prima. Era certamente quella, perché in piedi a prua c’era la stessa figura, con in dosso un mantello troppo corto e una strana moretta di colore rosa.

Non si perse d’animo. Nascose lo scrigno sotto il felze e in tutta fretta legò la gondola alla palina di calle Longa. Da lì avrebbe proseguito a piedi e si incamminò spedito nell’oscurità di una calletta.

Si voltò, angosciato, ma nel buio, pur percependo passi e fruscii di mantelli, non riuscì a vedere nulla. Fino a che, oltre un sotopòrtego, comparve la malmessa facciata della Furàtola del vin: la taverna in cui Francesco Grimaldi gli aveva dato appuntamento.

Finalmente tirò un sospiro di sollievo. Sistemò i pizzi alle maniche e imboccò l’ingresso.