Capitolo 7
Piazza San Marco. Un’ora più tardi.
Cinque ore dopo l’Ave Maria.
Le ombre e le luci soffuse delle barche sulla laguna dominavano la notte umida. All’ombra delle Procuratie Nuove, sul lato meridionale di piazza San Marco, non v’era traccia di gentiluomini in calze né di uomini di Palazzo. Quella era l’ora in cui per le calli non restavano che i fuochi dei venditori ambulanti, i fannulloni, i mendicanti… e le spie.
Una di queste era Cesare Trevisan, uomo su cui il Bailo di Costantinopoli mal riponeva la sua fiducia, e che aveva invece la brutta abitudine di rispondere anche ai turchi. Indossava una marsina scura, un’impeccabile parrucca bianca e un vistoso panciotto di broccato, che lo faceva assomigliare a un grosso pinguino. Poteva sembrare un patrizio appena uscito da qualche casino, sennonché invece di una dama (o di una prostituta) con lui c’era un anonimo compare sfregiato e dall’aspetto plebeo.
«È in ritardo», sussurrò nervoso, giocherellando con il bastone da passeggio.
L’uomo annuì, dando una scorsa dalla terrazza dei mori fino alle colonne, ultimo baluardo prima della notte sulla Giudecca. «Vi fidate di lui?»
«Naturalmente no, ma abbiamo alternative?»
«Avete ricevuto istruzioni da Uçar?».
La spia portò l’indice alla bocca. «Vi ho detto di non pronunciare quel nome!».
Seguì un silenzio imbarazzato in cui entrambi, per due volte, credettero che l’uomo che attendevano fosse giunto. Nel primo caso da San Moisè sbucò invece un religioso incappucciato che scomparve dietro la Basilica. Nel secondo, due birri muniti di lanterne che si diressero veloci verso le Prigioni nuove.
«Deve essere successo qualcosa», disse Trevisan, rompendo nuovamente il silenzio. «Spostiamoci da qui».
Fingendo di ciarlare, si mossero per raggiungere una posizione più favorevole. Poco lontano, dalla colonna di San Marco, pendeva una testa mozzata, l’ultimo segno tangibile di una recente esecuzione capitale. Si fermarono a distanza, nei pressi del ponte della Paglia, accanto a una catasta di legname che sarebbe servita per il ponte votivo della Festa del Redentore.
«Quella è una bissona dell’avogadoria», osservò Trevisani, tappandosi il naso con un fazzoletto di batista per proteggersi dall’olezzo.
In quel momento, dal rio di Palazzo emerse la chiglia arrotondata di una grossa imbarcazione: a bordo c’era un nutrito numero di birri e un magistrato imparruccato.
«Va’ a vedere», ordinò la spia allo sfregiato. Un nodo che non presagiva nulla di buono gli salì alla gola. «Non vorrei che questa sciarada avesse a che fare con il nostro amico».