Capitolo 39

Sestiere Santa Croce, subito dopo.

Ora italica 00:10.

 

Consumato nel tormento dell’incertezza, Francesco Grimaldi si scostò dalla finestra. Appena fu certo che gli zaffi se ne furono andati dalla corte sottostante, accese una candela e si lasciò cadere su una sedia.

Si trovava nel sestiere di Santa Croce da alcuni giorni, da quando cioè era fuggito da Ca’ d’Aumale con il gioiello di Annika fra le mani.

Per un uomo che aveva superato i quarant’anni, aveva un aspetto giovanile. Probabilmente era il viso glabro, o il sorriso cordiale che tradiva onestà, o forse le lentiggini dello stesso rosso carota dei capelli, che punteggiavano guance e naso. Era di corporatura segaligna, con gambe lunghe che ricordavano un adolescente e braccia magroline che sbucavano come uncini dai pizzi alle maniche.

«Il mio Francesco», borbottò, imitando una voce stridula come una forchetta sulla porcellana. E la parola “mio” era pronunciata imitando il tono di Madame d’Aumale, che da quando l’aveva accolto lo trattava come una specie di animale ammaestrato. Esattamente come Diderot e Voltaire o forse poco di più, visto che lui almeno sapeva leggere… All’inizio aveva creduto che fosse un modo per fargli delle avances, ma dopo mesi di gelida distanza, si era reso conto che non era affatto così. “Il mio Francesco” significava solo appartenenza, possesso.

La cosa più triste era però che tale senso di egoismo era reso possibile proprio dalla sua condizione sociale, quella di barnabotto. Se Grimaldi era infatti nato in una ricca famiglia patrizia, le sue vicende personali lo avevano portato a far parte della grande fetta dei nobili decaduti.

Si trattava di una categoria inquieta, purtroppo molto bene affollata, e di cui la Serenissima non andava fiera. Dei circa mille iscritti al Libro d’oro, se ne contavano solo un centinaio di ricchissimi e trecento di benestanti. I rimanenti, la stragrande maggioranza, erano miserabili, amorfi e scontenti della loro condizione. Ricevevano un documento di povertà, che dava loro diritto di essere ospitati in case pubbliche nella contrada San Barnaba (da cui derivava il loro nome) e vivevano di espedienti. Poiché formalmente mantenevano i loro diritti politici, alcuni, per tirare a campare, usavano partecipare al Maggior Consiglio vendendo il proprio voto al migliore offerente. Altri erano più fortunati: lavoravano nei ridotti come croupier o nelle case nobiliari come istitutori o bibliotecari. Grimaldi era appunto uno di quelli: era stato assunto dalla donna che aveva ridotto sul lastrico la sua famiglia, che lo trattava, da sempre, come un semplice animale ammaestrato.

 

 

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Si versò un bicchiere di Cordiale e raccolse i pensieri, riflettendo sull’inaspettata visita degli zaffi. Se si voleva trovare un lato positivo, il vecchio prestinaio era stato all’altezza e non aveva rivelato il suo nascondiglio. Tutto il resto? Be’, peggio di così non poteva andare: quello che era nato come una sorta di risarcimento della sua famiglia, depredata dei suoi averi dalla Dama nera francese, si era trasformato in un mezzo disastro.

Eppure l’affare era cominciato nel migliore dei modi. Annika era fuori per una delle sue “imprese” e lui aveva approfittato del momento per rubarle la pietra dal marchingegno. Era andato tutto liscio fino a che non l’aveva affidata a quell’idiota di Naso, al Casin degli Spiriti. Un compito banale, quello di nascondere l’oggetto e di consegnare una lettera al turco, era diventato un’odissea: Sandei si era fatto seguire e quando era arrivato alla Furàtola del vin non aveva potuto incontrarlo di persona.

«Cecilia», aveva sussurrato dalla sua camera nella locanda, appena si era reso conto che Naso non era solo. «Ho bisogno di un piacere da te».

La figlia dell’oste, che evidentemente doveva avere un debole per lui, gli si era avvicinata e aveva preso la mappa dalle sue mani.

«La devi dare a Sandei», le aveva spiegato lui. «Devi anche scusarti per il fatto che sono stato costretto ad andare via con urgenza».

«Cos’è?», aveva chiesto la ragazzina, lanciando un’occhiata al disegno e una al viso appuntito di Grimaldi.

«A te cosa sembra?»

«Non saprei». Si prese un istante per studiarlo meglio, e poi tornò ad alzare il mento con un pizzico di malizia. «Un due, forse. La parte sotto non saprei proprio…».

Grimaldi le aveva dato un bacio sulla fronte e poi con una pacca sul fondoschiena l’aveva spinta ad andare di sotto.

E adesso, a distanza di meno di una settimana, le cose si erano messe male.

Afferrò lo scarabotto, che aveva realizzato prima di consegnarlo in bella copia a Cecilia. Più lo contemplava estasiato, più si convinceva che era perfetto. Geniale.

Come era possibile che non avessero capito?

Lo esaminò di nuovo, con il solo ausilio della candela che gettava una luce fioca sul documento…

 

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Il turco, che con quella mappa avrebbe potuto recuperare la pietra, non l’aveva mai ricevuta e al suo posto l’avevano trovata gli zaffi.

Passò l’indice sul disegno a carboncino e per un secondo si crogiolò nelle intuizioni che stavano alla base di tutti gli elementi.

L’arma dei Malipiero, simbolo della nobile famiglia, aveva due significati: palazzo e corte. Gli artigli disegnati, infatti, erano due invece che tre; e la stessa coda del semivolo, che trasformava l’ala in un “due” stilizzato, doveva servire a comunicare quella facile informazione: due luoghi. Il primo, il più importante, era il palazzo, quello dove avrebbero trovato la pietra; il secondo, la corte, quello dove avrebbero invece trovato lui, per lasciargli il resto del denaro.

Tutto concordato con il turco. Ma tutto reso puntualmente inutile per l’inettitudine di Sandei.

A pensarci bene, era una fortuna che gli zaffi non l’avessero compreso, soprattutto perché Uçar in cambio dell’Omphalos gli aveva già lasciato un cospicuo anticipo.

Se proprio si voleva trovare un aspetto positivo era che – visto che gli zaffi poco prima cercavano proprio una pietra – Naso doveva averla nascosta bene prima di essere ucciso. Non poteva averne una certezza assoluta, ma l’ombra che aveva visto fuori dalla Furàtola del vin la sera del furto era sicuramente di Rudolf. L’aveva visto accoltellarlo all’addome e sentito chiedergli dove fosse il gioiello. Ma Sandei, per fortuna, si era portato il segreto nella tomba. Se le cose erano andate così, e Annika non sapeva dove fosse nascosto l’Omphalos, restava comunque un problema: di sicuro era sulle sue tracce.

Si versò un altro bicchiere e tornò alla finestra.

Il raccordo che aveva scritto, la lettera anonima con le strane tabelle della contessa – le stesse che dava in pasto a quella marmaglia di egiziani alla Giudecca – non era servito. Non avevano capito neppure quella. Dovendo togliersi di torno Annika, aveva immaginato che una denuncia anonima in una bocca di leone fosse il sistema più veloce. Ma sbagliava: i cervelloni del Palazzo non l’avevano arrestata.

Lo strillo di un gabbiano da rio Marin lo riportò al presente. Fuori c’era ancora una cappa umida, sotto la quale si alzavano le esalazioni acri della laguna. Un gondoliere stava urlando insulti, ma la sua voce lontana si confondeva con il lento sciabordio delle acque.

Cosa doveva fare?

Quanto tempo avrebbe atteso ancora Murat Uçar?

Non aveva scelta, doveva recuperare personalmente la pietra e consegnarla al turco.

Con il candelabro d’argento in mano, si avviò così alla botola coperta da un tappeto e l’aprì. Il passaggio dava accesso a un’angusta scala di legno tarlata che, attraverso un corridoio nel sottotetto, si collegava all’appartamento del prestinaio.

«Quei maledetti birri hanno arraffato la catenina di mia moglie», lo rampognò il vecchio, appena lo vide sbucare dal passaggio segreto con la fiammella a rischiaragli il viso pallido.

«Sei stato bravo a non rivelare il nascondiglio», lo rassicurò Grimaldi.

«La rivoglio!».

«La riavrai. Con un altro bel po’ di ducati per il tuo disturbo».

Poi osservò di nuovo la brutta copia della sua mappa e sorrise. Almeno lui sapeva dove cercare.