Capitolo 47

Campo San Samuele, sestiere San Marco.

 

Eliardo spiccò un salto dalla gondola e corse a testa bassa sul selciato.

Con una manata bene assestata spinse Grimaldi, facendogli perdere l’equilibrio, proprio nell’istante in cui stava sparando. Il barnabotto capitombolò, ma la palla partì ugualmente, con calcinacci che sbuffarono dalla facciata del palazzo.

Qualcuno, dal pòrtego, cominciò a urlare, proprio nel momento in cui i fuochi artificiali cessarono.

«Se mi aveste invitato a farvi da cavaliere tutto questo non sarebbe successo», scherzò l’alchimista, alla luce della luna piena. Poi, vedendo che Grimaldi si muoveva, allungò il passo e caricò una seconda volta, assestandogli un calcio all’addome. La parrucca gli cadde dalla testa, e il barnabotto tossì come un malato di tisi. Ma non si arrese.

«Attento!», l’ammonì Madame d’Aumale.

Grimaldi, da terra, allungò una gamba e sgambettò l’alchimista, che rotolò a sua volta.

Rudolf indietreggiò, protettivo nei confronti della contessa. Agitando il quadrello, le ghermì un braccio e la trascinò verso il molo, dove li attendevano la caorlina e sei rematori. Non riuscirono ad arrivarci, perché il barnabotto fu il primo a rialzarsi, con la pistola in pugno. Si sistemò l’abito, tenendo sotto tiro la contessa e con la coda dell’occhio de Broglie, già pronto a colpirlo nuovamente.

Si avventò su di lui con un manrovescio, scagliato dall’alto verso il basso, e l’alchimista provò a proteggersi, accovacciandosi. Quando Grimaldi fu abbastanza vicino, però, scattò: con un colpo di reni Eliardo gli piantò entrambi i piedi sullo jabot e tirandolo per il bavero lo catapultò lontano.

Il volo fu attutito da un carretto di legno carico di ortaggi, che andò in frantumi sotto il peso del barnabotto. Qualcosa cadde nel Canal Grande tra schizzi e sbuffi d’acqua. Grimaldi atterrò di schiena e la pistola, che era riuscito a trattenere saldamente in mano fino ad allora, gli sfuggì via.

 

 

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Dalla polifora di palazzo Malipiero, Cesare Trevisan assistette impassibile alla zuffa. Più che al centro di una piazza, gli ospiti, Mellan compreso, ebbero l’impressione che la scena si svolgesse sul palco del teatro San Luca.

Nonostante la velocità con la quale si erano succeduti i colpi, la spia riuscì a individuare ciò che cercava. Non aveva visto da dove la contessa avesse preso la pietra, ma ora la teneva stretta in grembo e con l’aiuto del suo uomo si stava dirigendo alla caorlina.

Scattò giù per le scale e si diresse all’uscita posteriore: se aveva ben compreso le intenzioni di Madame d’Aumale, gli sarebbero servite le sue gondole, ormeggiate poco lontano in rio del Duca.

 

 

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Tenendo d’occhio Grimaldi sdraiato sul bordo di pietra del canale, Eliardo si ripulì gli abiti. Si inginocchiò e con la mano adunca raccolse la pistola caduta per il fusto in legno.

«Vi devo un ringraziamento», lo baciò sulla fronte Madame d’Aumale, che nel frattempo aveva fatto sparire l’Omphalos tra i pizzi della manica scampanata. Rudolf la tirava verso la caorlina, ormeggiata di fronte alla chiesa e con i rematori già in posizione.

Eliardo rimase immobile al centro del campo, la pistola di Grimaldi tra le dita. Ansimava, ma il suo volto aveva assunto un’espressione corrucciata. «Tutto qui? Non mi merito qualche spiegazione?», sbottò, sotto gli sguardi indiscreti dei curiosi affacciati alle finestre del palazzo. «Non dovreste spiegarmi il motivo per il quale non avete ritenuto di dovermi portare con voi a vedere lo spettacolo pirotecnico?»

«Non pensavo foste un tipo da feste», lo schernì lei, facendo guizzare un lampo sul suo Francesco, ancora sdraiato per terra. Due fanti della Quarantìa si stavano avvicinando a lui con aria minacciosa.

Subito dopo, mentre poggiava una scarpina sul ponte, Madame d’Aumale si sentì in obbligo di spiegarsi meglio. «Non sapevo che l’avrei trovato…».

Non riuscì a finire la frase, perché un clangore secco graffiò l’aria.

Si voltò verso Grimaldi, che da terra teneva una seconda pistola fumante puntata verso Eliardo. Il barnabotto sorrise, malevolo.

L’alchimista però non capì immediatamente cosa era successo; se ne rese conto solo quando un odore acido di polvere da sparo gli arrivò alle narici e le gambe smisero di sorreggerlo. Si accartocciò sul selciato come un lenzuolo, con una macchia di sangue scarlatta che si allargava sotto di lui.

Madame d’Aumale provò a corrergli in aiuto, ma Rudolf la trattenne. Fu sufficiente un’occhiata perché l’uomo le lasciasse il braccio. La nobildonna tornò a grandi passi su campo San Samuele e, sorreggendosi le vesti, si chinò su Eliardo.

«Ecco», sbottò lui, uno schizzo di sangue che gli segnava il viso. «Lo sapevo che sarei dovuto restarmene alla Giudecca».

«Aiutami», incitò Madame d’Aumale a indirizzo di Rudolf. L’alchimista era ferito tra la spalla e il braccio e sembrava piuttosto grave. «Non possiamo lasciarlo qui o morirà».

L’uomo si avvicinò a Eliardo, senza commentare. Per quanto ritenesse inutile ormai salvare Eliardo, la contessa aveva ragione: la ferita non era in un punto vitale, ma se non fossero intervenuti sarebbe morto dissanguato.

«Comunque», si affaticò l’alchimista, con il suo sorriso obliquo e beffardo anche in quella situazione, «per concludere il discorso: i fuochi artificiali della vecchia non erano tanto male».

Annika si sforzò di sorridere, ma sul suo viso si era affacciata un’ombra nera di preoccupazione. «No», confermò. «Non erano affatto male». Si voltò verso Rudolf che aveva intanto lacerato la camisiola candida di Eliardo, per vedere meglio la ferita. La palla non sembrava essere uscita, quindi con il quadrello stava per provare a estrarla.

«Ahi», si ribellò l’alchimista. Ma il suo tono era sempre più flebile. «Mi stai scavando il braccio?»

«Sapete cosa penso?», si rivolse a lui Madame d’Aumale, girandogli il volto con la mano per distrarlo e non fargli guardare la ferita. «Che forse i fuochi si vedono meglio dalla terrazza di San Marco».

Rudolf affondò il quadrello nella lacerazione e lui soffocò un rantolo di dolore. «Promettetemi una cosa», gemette subito dopo, con aria improvvisamente seria. «Se me la caverò la prossima volta mi inviterete e li guarderemo insieme».

«Ve la caverete!», lo rassicurò Annika, che proprio in quell’istante alzò gli occhi verso il Canal Grande. E proprio allora, lungo il riflesso cangiante della luna, vide comparire due gondole con il feral de codega che illuminava i fregi della Repubblica.

«Dobbiamo andare», si rivolse a Rudolf. Anche lui aveva compreso cosa stava succedendo. «Non c’è più tempo. Portiamolo con noi».

Pur non sapendo cosa avesse in mente la donna, con le sue braccia possenti l’ormone aiutò Eliardo ad alzarsi.

«Dove mi portate?», cercò di sapere l’alchimista, vedendo approssimarsi la piccola luce sulla poppa della caorlina della nobildonna.

«Nel posto più sicuro che esiste, dove nessuno vi troverà».

Quella rassicurazione fu l’ultima che lui udì, perché, appena fu adagiato del ponte, perse i sensi.

Rudolf slegò gli ormeggi e diede ordine ai rematori un istante prima che una gondola li abbordasse.