Capitolo 22
Palazzo Ducale, martedì 14 luglio 1761.
Due ore dopo l’alba.
Il Libro d’oro e quello d’argento erano custoditi nella splendida Sala dello scrigno, al piano delle logge del palazzo Ducale. Insieme a tutti i documenti relativi ai titoli nobiliari, si trovavano all’interno di un armadio laccato di bianco e decorato d’oro, che occupava una nicchia della sala.
Quando messer Giovanni Soro entrò nel locale attiguo, la stanza degli Avogadori, non c’era ancora nessuno. Passò davanti ai dipinti dei magistrati in atto di devozione alla Vergine, e si sistemò a un tavolo da consultazione, tra le due colonne che sorreggevano il maestoso travato in legno.
Occupato a palazzo Ducale praticamente dalla sua intera esistenza, aveva da poco compiuto sessant’anni e viveva a San Zaccaria con la madre ottantenne. Per la Repubblica aveva svolto i compiti più vari: da bibliotecario ad aiutante censore, da semplice garzone a collaboratore del provveditore. Ormai da quasi un decennio, però, era il fedele segretario all’Avogadoria de Comùn, che aveva tra i suoi compiti anche quello di custodire il Libro d’oro.
Mesto nel portamento e nell’aspetto, quella mattina la parrucca era meno impeccabile del solito, ed era in completo accordo con le gote rosse e cadenti. Le rughe sul collo erano profonde come canali e le occhiaie, dello stesso nero dell’abito, facevano risaltare iridi azzurre, piccole e avide.
Con una chiave che teneva nella scarsela, aprì la serratura della scrivania e ne estrasse uno scrigno decorato con bassorilievi d’avorio. Sapeva bene che prestare denaro contro interessi era affare riservato ai banchi del ghetto; in cuor suo tuttavia sapeva che la Repubblica stessa, per avere meno poveri di cui doversi occupare, tollerava e a volte incentivava lo strozzinaggio.
Giovanni Soro aveva cominciato quasi per caso, sfruttando la sua posizione di rilievo e la nomea di funzionario affidabile. Il fatto che non avesse famiglia e che conducesse una vita quasi monacale, gli aveva dato modo di disporre di sufficienti quantità di denaro: aveva iniziato prestando piccole somme, che annotava su un registro nero, per poi aumentare sempre di più i prestiti. Adesso – anche se la Chiesa considerava peccato il prestare moneta a interesse – aveva talmente tanti zecchini che erano i religiosi e i nobili stessi che ne chiedevano a lui; salvo poi schernirlo nei salotti chiamandolo Fureghìn, il maneggione che sarebbe diventato il più ricco del cimitero.
Aprì lentamente il suo scrigno e, mentre metteva da parte alcune monete d’oro, sorrise.
Quando un elegantissimo e impettito Mattio Mellan entrò, lo trovò esattamente così, immobile a crogiolarsi tra il denaro sonante. Teneva le mani appassite sul grande tavolo e carezzava le monete come se si fosse trattato della pelliccia di un cane.
«Missier Grande», esordì Soro, in tono acuto, non appena si fu accorto di non essere più solo. Non mise da parte il piccolo baule e non tentò di nascondere la sua attività parallela, che tanto tutti conoscevano. Si limitò quindi ad alzarsi e a mimare una riverenza.
Mellan provava un’antipatia istintiva per quell’omino e ancor più per il fatto che praticava anche tra quelle mura; sapeva bene però che il suo attaccamento al denaro gli dava modo di conoscere praticamente tutti i patrizi della città, e quello era il suo maggior pregio.
«Il buon Padoan mi ha riferito che avete qualche informazione da rivelarmi sul simbolo trovato a San Bastiano».
Il Fureghìn sorrise, mettendo in mostra due dentoni bianchi sotto il labbro smunto. «Quello trovato addosso al figlio di Sandei?»
«Esattamente». Era proprio vero: Venezia era così piccola che ciascuno sapeva tutto di tutti.
«Dux pacificus», rivelò Soro, raggiungendo un armadio sotto i ritratti nella parete più lunga della stanza. «Vi avranno riferito, eccellenza, che per alcuni tratti il simbolo è affine a quello della casata dei Malipiero».
«Il Doge della pace», mormorò Mellan, ricordando il soprannome di Pasquale Malipiero, serenissimo principe morto poco oltre la metà del Quattrocento. Era soprannominato Dux pacificus perché sotto la sua guida fu garantito un periodo di pace dopo le guerre di Francesco Foscari. «Sì. Sapevo dei Malipiero e in effetti l’ala somiglia a quella dello stemma di famiglia».
Il segretario estrasse da un portadocumenti in pelle lucida la raffigurazione di uno scudo e la posizionò sul tavolo. Accanto sistemò il foglio di carta pergamena insanguinata, con il simbolo trovato addosso al corpo di Sandei.
«Guardate», indicò.
Mellan indossò gli occhialini in corno e si concentrò sui due simboli:
«A destra il carboncino che mi ha consegnato Padoan, quello della vostra indagine. A sinistra l’arma dei Malipiero».
«Se escludiamo la parte sottostante del primo stemma, la differenza principale è che uno ha la coda e l’altro no».
«Esattamente: il mezzo volo destro spiegato di nero e sostenuto da un artiglio non presenta la coda». La terminologia usata da Soro indicava, in araldica, l’ala destra di un’aquila, evidentemente priva di coda.
«E se non fosse un’ala? Qualcuno aveva suggerito che ricordasse la forma di un punto interrogativo. O del numero due».
«Punto interrogativo non direi. Il due però potrebbe avere una qualche attinenza». Soro indicò la zampa. «Questa è un’altra differenza tra i due simboli: il vostro ha solo due artigli, mentre quello dei Malipiero tre».
Mellan si avvicinò: in effetti, nella parte sinistra della zampa, riscontrò anche quella piccola differenza che prima non aveva notato. «E cosa pensate delle raffigurazioni sottostanti?».
Lo strozzino rimase impassibile, come se li avesse notati solo in quel momento. «Non so cosa dirvi. Di certo non si tratta di simboli araldici. Forse qualcos’altro…».
«E cosa potrebbero essere a parer vostro?»
«A mia modesta opinione sono un corpo del tutto estraneo. Come se fossero qualcosa di scollegato, di indipendente». Soro ammutolì per un secondo. «I Malipiero hanno dato alla Repubblica personalità importanti: Stefano, impegnato contro i turchi alla Boiana o Tommaso Malipiero, provveditore al campo del Carmagnola. Ricordo anche Martino, ambasciatore presso Sigismondo di Lussemburgo o ancora Caterino, distintosi a Lepanto».
«Potrebbe avere a che fare con loro?»
«È possibile. La somiglianza tra i due stemmi è troppo netta, per essere casuale. Forse la parte sottostante vuole richiamare l’attenzione dell’osservatore su qualcosa, oggetti collegati alle sortite di qualche Malipiero, oppure stanno a indicare delle differenze nei rami familiari». Soro fece una pausa gravida di sottintesi. «Chissà, tiro a indovinare: nel palazzo accanto a San Samuele, potrebbe esserci un dipinto, uno stucco, un’effige che ricordi quei simboli».
A quelle parole, Mellan ripercorse mentalmente le vicende dello strano disegno a carboncino, scoperte da Van Axel: Francesco Grimaldi lo aveva consegnato alla figlia dell’oste, che a sua volta lo aveva dato a Sandei poco prima che quest’ultimo venisse ucciso. Poteva dunque trattarsi di una specie di mappa? Una mappa per trovare qualcos’altro collegato alla casata?
«E di questo cosa ne pensate?». Così dicendo, il Missier Grande estrasse dalla tasca del giustacuore gallonato d’oro i fogli giunti a Palazzo tramite la recente spiata. «È possibile che servano a comprendere il primo simbolo?»
«Di cosa si tratta?»
«Ditemelo voi».
Il Fureghìn guardò la prima tabella con attenzione.
Si carezzò il sopracciglio e cominciò a muovere le labbra, come se stesse mentalmente facendo dei calcoli.
«A cosa la fanno pensare?»
«A Leonardo Eulero».
«Come dite?»
«Eulero, il matematico. Si tratta di operazioni matematiche. Teoria dei numeri».
«Non è a parer vostro un registro di contabilità?». Quella domanda avrebbe potuto forse offendere Soro, che annotava i suoi prestiti in un documento simile, ma Mellan accettò il rischio di indispettirlo.
«La contabilità è fatta da somme e sottrazioni», chiosò invece quest’ultimo, senza lasciar trasparire alcun astio nella voce. «La vostra tabella è più complessa. Guardate». Picchiettò sulle colonne intestate con le lettere A e B: «Al-jabr, algebra. Si tratta di serie di moltiplicazioni. Ma non solo».
«Spiegatevi meglio».
«La colonna A è il risultato della moltiplicazione delle prime tre. La B, la moltiplicazione della prima e della seconda; l’ultimo numero, invece, rappresenta la divisione delle somme di entrambi: A diviso B».
Mellan ricontrollò i numeri, tuttavia non riuscì a confermare se tutti i conti erano esatti o meno. «Ma questo cosa significa?»
«Non saprei proprio dirlo… In basso c’è anche una data, 11 luglio 1761, cosa vi dice?».
Il Missier Grande si ritrovò a osservarla. Non ne aveva proprio idea: l’11 luglio era il giorno in cui era iniziata l’indagine, ma a parte quello non vedeva correlazioni con i numeri della tabella. Ora che Soro lo aveva fatto notare, tutte seguivano lo stesso criterio di moltiplicazioni e divisioni. «È un cifrario», decretò. «Sono codici, depositari di chissà quale trama o segreto».
«È possibile. Se in verità sono collegati con i Malipiero, forse riuscendo a comprendere il significato della parte bassa del simbolo, il loro contenuto risulterà chiaro».
«Potreste avere ragione… o forse no», commentò Mellan, stringendosi nelle spalle.