Capitolo 50
Palazzo Ducale. Alcune ore più tardi.
Pomeriggio.
I passi risuonarono cupi sui marmi della grande sala del Magistrato alle Leggi, al piano nobile del palazzo Ducale.
Mattio Mellan, con indosso la consueta toga nera, camminava spedito. Dietro di lui, le armi del capitano Van Axel tintinnavano, ed erano l’unico suono percepibile oltre al respiro del Missier Grande. L’edificio era semivuoto, con solo poche guardie che presidiavano gli accessi alle stanze del doge e i locali giudiziari.
«Sapete cosa mi dispiace di più?», sbottò Mellan, continuando a camminare. «Non aver compreso prima il significato di quella strana mappa: a pensarci bene, i simboli erano estremamente chiari…».
«Siamo entrati a palazzo Malipiero da campo San Samuele, dove è apposta l’arma delle famiglia», commentò Van Axel, asciutto. Allungò il passo e raggiunse il capo del satellizio, che si fermò in quel momento al centro della sala. «Se avessimo prestato attenzione ai portali d’acqua probabilmente avremmo notato anche noi le due briccole e avremmo ritrovato lo scrigno».
«Era sotto il nostro naso e ce lo siamo fatti scappare», ribatté il Missier Grande, con amarezza. «Così come la contessa. Ciò che rimpiango di più è non essere arrivato con sufficienti birri».
«Vi capisco, zio, ma non si poteva fare diversamente: è successo tutto troppo in fretta e avevano una bissona veloce; sono spariti ancora prima che gli uomini capissero cosa stava succedendo».
Mellan sospirò e riprese a camminare. «Piuttosto», continuò, «avete verificato con gli Extraordinarii, a palazzo dei Camerlenghi? Le gondole che sono partite all’inseguimento erano le loro: se avevano del personale alla festa lo devono pur sapere…».
«Nessuno ne sa nulla, in effetti». I due guadagnarono il corridoio che portava al ponte dei Sospiri. Lo spazio era angusto, illuminato solo dalla fiammella stanca di una lampada a parete. «Non ci sono neppure indagini sui libretti dei carichi arrivati in questi giorni in città, se è per questo».
«Tutto conduce a lui quindi… un lavoro sporco può essere condotto solo da chi è privo di sani princìpi. Come abbiamo fatto a non accorgerci di avere una serpe in casa?»
«È stata una fortuna che Trevisan si sia scoperto in quel modo».
«O una fortuna, oppure non ha avuto altra scelta. Si è mosso nell’ombra per settimane e adesso è stato costretto a uscire allo scoperto».
Van Axel annuì. «I suoi uomini non parlano, ovviamente. Una suora del convento di Santa Maria degli Angeli a Murano ha però riferito di essere stata violentemente perquisita dai funzionari dei dazi… Non cercavano affatto caffè, bensì una pietra preziosa…».
Raggiunto il ponte dei Sospiri, il Missier Grande rallentò, sbuffando. Nulla a che vedere con il soprannome del ponte, che si riferiva invece al sospiro dei prigionieri che per l’ultima volta, attraversando il passaggio che li avrebbe condotti in cella, potevano assaporare la libertà.
«A quanto pare alla fine abbiamo il tassello che ci mancava: Cesare Trevisan. Era alla festa, ha assistito al ritrovamento della pietra alchemica e inoltre è stato due volte sulla Mısır Piramitleri». La mente di Mellan vagheggiò fino al verbale che gli aveva mostrato il doge, solo pochi giorni prima. Da quel documento era venuto a conoscenza per la prima volta degli affari del turco. Ripensando all’imbreviatura, ricordò con malcelata irritazione che il funzionario delegato alla perquisizione era proprio Trevisan.
«Se è vero, come mi riferiscono, che anche questa mattina il buon Cesare è stato sullo sciabecco, questo potrebbe essere un indizio a sostegno della nostra tesi», aggiunse Van Axel. «Ipotizzando che lavori per Murat Uçar, è possibile a questo punto che il prezioso che il turco sta per acquistare sia proprio l’oggetto trafugato alla contessa».
«Grimaldi ruba l’oggetto alla sua padrona e decide di venderlo». Mellan inquadrò il giovane capitano a metà del ponte. «Stando a quanto dice l’oste della bettola, sappiamo che recentemente ha pagato i suoi debiti: probabilmente Trevisan, che fa da mediatore, gli dà un acconto. Ma qualcosa va storto».
«Forse il barnabotto cambia idea, o ritiene che l’anticipo non sia sufficiente», a ruota libera, Van Axel proseguì il ragionamento. «O più facilmente la morte di Sandei, incaricato di nascondere temporaneamente la pietra, lo costringe ad andare a riprendersela personalmente; in un caso o nell’altro, purtroppo per lui, la legittima proprietaria lo ritrova».
Il capo del satellizio annuì convinto e riprese a camminare, raggiungendo l’edificio delle Prigioni nuove. L’umor nero per essersi fatto sfuggire la contessa da sotto il naso era compensato solamente da una cosa: l’uomo che avevano acciuffato dopo il ricevimento. L’ospite che dalla sera precedente occupava la cella dei Piombi in cui erano diretti.
«Comunque, in fin dei conti avevamo ragione», aggiunse il capitano, avvicinandosi alla guardiola. La luce scarseggiava e l’unica illuminazione era data dalle torce ardenti alle pareti. Ne afferrò una e la issò davanti a sé, facendo strada. «La contessa è il mandante ideale di tutti delitti; dopo quanto le abbiamo visto fare per proteggere quella pietra, la nostra ipotesi parrebbe confermata…».
Voltarono l’angolo e si trovarono di fronte alle celle. Erano protette da un’imponente rete di sbarre e piene di ospiti dall’aspetto miserando. Stavano tutti immobili, coricati su pagliericci smunti o poggiati alle pareti per difendersi dal caldo asfissiante. Nonostante le Prigioni nuove fossero state costruite per migliorare le condizioni di vita dei prigionieri, i miasmi d’urina e sudore erano al limite del sopportabile.
«A questo punto capire cos’ha di tanto speciale quella pietra alchemica diventa di fondamentale importanza», concluse Mellan.
«Lui credo sia la persona giusta per aiutarci a capirlo. Eccoci, siamo arrivati». Van Axel si fermò a metà del corridoio di fronte alle possenti sbarre. Alzò la torcia per illuminare l’interno della cella e i prigionieri sgattaiolarono via come topi, proteggendosi i volti con le braccia. Tutti tranne uno.
«Francesco Grimaldi», esclamò Mellan, con tono stentoreo. «Alzatevi».