Capitolo 63
Nei pressi di Oriago, sulle rive del Brenta. Non molto tempo dopo.
Mattina presto.
Eliardo udì i cavalli da mille piedi di distanza. Poco prima, dolorante e spossato, si era fasciato nuovamente la ferita e aveva infilato la gemma nel suo sacchetto portamonete di fustagno. A un’occhiata attenta aveva però notato che il gioiello per il quale in tanti erano morti non aveva nulla di bello o di prezioso. Non era affatto lucente e sembrava piuttosto un pezzetto di vetro arrotondato, sporco di fuliggine e che poco aveva a che fare con le gemme magiche fabbricate nel suo athanor. A dispetto di tutto, faticava ancora a credere a quanto fosse davvero accaduto: quella donna l’aveva usato. Sapeva che i suoi inseguitori non l’avrebbero lasciata fuggire da Murano e aveva pensato bene di nascondere la pietra dentro di lui: un ferito, a cui non avrebbero probabilmente dato troppo peso. E se anche fosse accaduto, non avrebbero certamente pensato di guardare dentro a un braccio…
Madame d’Aumale doveva essere fuggita poco prima dell’arrivo di Trevisan, che durante le sue febbri, infatti, più volte gli aveva chiesto informazioni su di lei… e sulla pietra. Chissà, mentre era in fuga, qualcuno doveva anche averla veduta e magari aveva frugato tra le sue cose. Senza trovare nulla, ovviamente, perché lui era il cavallo di Troia. Un cavallo di Troia aggredito nella sua stessa abitazione da Rudolf, non appena rientrato in città…
A quel pensiero, anche le parole del gigante biondo cominciavano ad avere più senso: «Siete stato bravo ad arrivare fino a qui… ma ora dobbiamo finire il lavoro», aveva detto, brandeggiando il quadrello e piantandoglielo sulla fasciatura. Era stato bravo, sì, un furlàn, un fattorino vivente con mille sofferenze e rischiando la sua stessa vita. E tutto senza neppure sapere cosa stava realmente facendo. Trasalì. Il fatto che fosse stato aiutato nella fuga successiva proprio dalla padrona di Rudolf forniva un altro dettaglio interessante: con ogni probabilità era un piano di riserva, nel caso che il suo scagnozzo non fosse riuscito nell’intento di scorticarlo vivo. Era perfettamente nello stile della contessa, prepararsi scenari alternativi: tutto per condurlo in un luogo dove sarebbe stato più facile ingannarlo.
Con ogni probabilità, Madame d’Aumale l’avrebbe quindi raggiunto nella locanda di lì a poco. Ma cosa ne avrebbe fatto di lui? Per quanto ci avesse riflettuto, era abbastanza sicuro che non l’avrebbe ucciso. Certo, sicuramente l’avrebbe stordito in qualche modo per cercare il prezioso gioiello. Ma non l’avrebbe ucciso (anche se oltre a un generico senso di magnetismo, di attrazione forse, non sapeva darsi una spiegazione razionale).
«Domani riceverete notizie su cosa fare», gli aveva semplicemente comunicato Lucia. Si trattava ora di capire se lui davvero volesse attendere quelle notizie. Oppure se fosse più sensato scappare. Oltretutto, adesso che aveva anche la gemma tra le mani poteva usarla come merce di scambio… o meglio ancora venderla. Un turbine di emozioni lo aveva avvolto, ma il suo innato senso di sopravvivenza l’aveva fatto propendere per la seconda ipotesi: fuggire. E ciò, nonostante l’attrazione che ora si era convinto di provare per quell’aguzzina. Si era quindi vestito in tutta fretta ed era sceso barcollando nel bàcaro, ora popolato da pochi avventori assonnati.
E adesso era lì, sotto il porticato, con un mantello tarlato sulle spalle e un fagotto tra le mani tremanti di febbre. Era pronto a incamminarsi per l’entroterra quando udì il fragore degli zoccoli al galoppo sul sentiero battuto. Si adirò con sé stesso, rimproverandosi di aver compreso l’inganno troppo tardi e di non essersi deciso abbastanza in fretta. Immaginò che oltre la polvere sollevata dai cavalli si celasse la contessa, ma quando i cavalieri furono sufficientemente vicini, si rese conto che non era affatto così.
«Signor Salazar», lo riprese Mattio Mellan, appollaiato sulla sella con il destriero che nitriva nell’umidità del mattino. Con lui, su un roano dal manto pezzato, c’era anche il suo fidato scagnozzo, il giovane capitano Van Axel, sorridente. E dietro si erano posizionati almeno dieci fanti della Quarantìa. «Dove eravamo rimasti?».