Capitolo 23

Palazzo Ducale, poco dopo il colloquio con Soro.

Prima mattina.

 

Mattio Mellan scese i gradini di marmo della Scala d’oro a due a due, con il mantello che bruiva lieve nell’aria.

La decorazioni in stucco bianco e foglia d’oro zecchino della volta luccicavano ai primi raggi del sole, che lo abbagliarono in pieno quando raggiunse la Scala dei giganti. Poiché era stata realizzata per tenere separati i locali privati del doge da quelli dell’amministrazione giudiziaria, la distanza con il suo ufficio era relativamente breve.

Durante il tragitto nel cortile centrale non incontrò nessuno. Ma se anche fosse accaduto, probabilmente non gli avrebbe dato conto, assorto com’era nei suoi pensieri.

“Malipiero”, rifletté. Chi conosceva a palazzo Malipiero che avrebbe confermato i sospetti di Soro? I simboli potevano essere realmente collegati in qualche modo alla nobile famiglia?

L’ipotesi gli sembrava piuttosto strampalata e remota, a dire il vero. A ogni modo la somiglianza con la loro effige era netta, e dopotutto non aveva elementi migliori per venire a capo della questione. Era certo che nel momento in cui avesse compreso il significato dello stemma e delle tabelle, gli altri tasselli dell’ingranaggio sarebbero stati chiari. A cominciare dal ruolo di Madame d’Aumale: una sorta di comparsa ai margini della vicenda ma che, da amante di teatro qual era, ambiva invece a un ruolo da protagonista.

Quando raggiunse le stanze dedicate ai suoi uffici, non poté fare a meno di notare una figura immobile, davanti ai dossali lignei dell’anticamera.

«Capitano Van Axel», lo salutò calorosamente, andandogli incontro.

Lodovico accennò un inchino. Era in piedi al centro della stanza con il tricorno sotto il braccio. Tra le mani sorreggeva un fagotto di stoffa con lo stesso riguardo che avrebbe riservato a un bimbo in fasce.

«Ci sono novità?»

«Sì, zio». Il capitano mosse un passo e aprendo l’involto mostrò al Missier Grande la lucente daga argentea contenuta all’interno.

«È ciò che penso?».

Van Axel raccontò di come era entrato in possesso dell’arma turca, di Alvise Quintavalle e dell’ottomano, scomparso come un fantasma. La parte positiva del racconto fu però riservata alla daga, simile a quella che aveva ucciso Sandei. Era rimasta incastrata nel costato dello speziale ma un certo Bognolini, un chirurgo dell’ospedale dei Santi Pietro e Paolo, era riuscito a estrarla.

«A quanto pare siete andato molto vicino ad acciuffare il nostro assassino», concluse Mellan, saggiando con l’indice le decorazioni sulla lama: alcune erano pregiati ornamenti della simbologia musulmana, altri, a forma di triangolo, erano invece un po’ più grezzi.

«Se è davvero un ottomano, potrebbe essere necessario chiedere udienza agli inquisitori a questo punto».

«Avete ragione, anche se più che gli inquisitori vorrei mettere al corrente dell’indagine il serenissimo principe».

«Il doge in persona, zio?»

«Non so ancora in che modo, ma potrebbe essere coinvolta un’importante famiglia, i Malipiero».

Van Axel conosceva quei patrizi, che possedevano un grande palazzo affacciato sul Canal Grande, di fronte al rio di Malpaga. «Se volete posso occuparmene io».

Mellan annuì, accondiscendente con il giovane che, per età, avrebbe potuto tranquillamente essere suo figlio. In cuor suo, tale pensiero l’aveva sfiorato in più di una circostanza.

«Se è come penso, questa volta sarà necessario che ce ne occupiamo insieme».