Capitolo 3

Delphi, Grecia, 361 a.C.

2122 anni prima…

 

Il golfo di Corinto era di un azzurro così intenso che la linea dell’orizzonte si confondeva con il cielo. Il sole fiammeggiava, diffondendo i suoi raggi sulle alture punteggiate di alberi, e a tratti si scorgevano casupole e strade polverose percorse da carri.

Delphi, la città dove era diretto Archita dopo un estenuante viaggio lungo gli umidi sentieri del mare, era considerata il centro del mondo. Il luogo dove due aquile liberate da Zeus si erano ritrovate dopo essere volate in direzioni opposte.

Superato il pontile cigolante che si protendeva sull’acqua cristallina, il vecchio viaggiatore e i suoi schiavi proseguirono verso l’entroterra.

Era un uomo che aveva da tempo superato le settanta primavere, ma che camminava con sorprendente vitalità. Aveva capelli ricci candidi e folta barba e indossava il chitún, una lunga tunica legata in vita da una pregiata cintura. Sul capo, per difendersi dal sole, portava il petasos, un cappello ad ampie tese.

«Bene arrivato, stratego», gli si fece incontro un gobbo con un sorriso sdentato. Lo attendeva sul ciglio della strada, davanti a un carro trainato da un bue. «Il gran sacerdote è già stato avvisato del tuo arrivo. Ti attende con impazienza».

«Da quanto mi dicono, attende con impazienza tutti i clienti aristocratici del Peloponneso».

L’omino sorrise senza replicare. Aiutò gli schiavi a caricare il bagaglio e partì lungo le gole del Parnaso, in direzione di Delphi.

Il viaggio fu breve, se paragonato a quello in nave da Taras, la città della Magna Grecia da cui il viaggiatore proveniva.

Appena il sole fu alto sull’orizzonte ed ebbero superato viandanti provenienti da tutto il mondo conosciuto, la strada polverosa svoltò a sinistra e poi a destra.

Archita alzò lo sguardo e quando lo vide rimase estasiato. Sebbene ancora in costruzione lo splendido tempio di Apollo, con le sue monumentali colonne doriche, brillava di luce rossastra. Era un edificio imponente, maestoso, che spiccava ai piedi delle vette del Fedriade come uno scoglio d’oro sul mare piatto. E non era il solo edificio a rendere ineguagliabile il santuario: accanto al tempio sorgevano altari lucenti, lo Halos gremito di pellegrini, focolai dal fuoco perpetuo, il Bouleuterion con le sue gradinate lucenti. Statue, colonne e capitelli erano posizionate lungo la via sacra fin dove si perdeva la vista. Tutto era studiato per conferire magnificenza all’Omphalos, il masso a forma di uovo che rappresentava l’ombelico del mondo. O forse solo per rendere indimenticabile la visita.

Sceso dal carro, Archita raggiunse a piedi l’altare di Chio, antistante l’entrata del tempio. Anche lì sostavano decine di supplici, in coda per potere udire le parole della pizia, la sacerdotessa incaricata di pronunciare l’oracolo. Non era scontato che potessero farlo, perché i sacerdoti accettavano soltanto una minima parte di quelle persone.

Il viaggiatore, tuttavia, non era destinato a rispettare la coda. L’obolo che si era preoccupato di far giungere a Delphi prima del suo arrivo gli avrebbe garantito in ogni caso un colloquio con la pizia.

E così fu. Non appena il gran sacerdote, che gironzolava a testa alta intorno alla Roccia della Sibilla, lo vide, si affrettò a raggiungerlo.

«Hai fatto buon viaggio, stratego?», l’interrogò con tono mellifluo. Merops era esattamente come era stato descritto ad Archita: giovane, in considerazione del suo ruolo, alto e con la pelle pallida. Aveva un atteggiamento falsamente servile e fregava le mani in continuazione sulle preziose vesti. «Siete stato estremamente generoso», notò ancora. «La pizia è a vostra disposizione».

Girarono attorno al tempio e, superato il pronao coperto da un ponteggio, fu condotto nell’adyton, la camera sotterranea della sacerdotessa.

Nonostante fuori facesse caldo, una volta scese le scale, Archita si trovò in un ambiente più fresco, con dolci vapori che ammorbavano l’aria.

La pizia era esattamente dove se l’aspettava: assisa sul tripode, circondata da fumi biancastri. Era una donna né giovane né vecchia, magra, con il viso scavato e le orbite strabuzzanti.

Archita sapeva che era abituata a vaticinare con dei laconici “sì, no, forse”, alle domande poste, quindi si era preparato un breve discorso. La sua vita era ormai giunta quasi al termine e la sua coscienza, a dispetto di tutto, gli imponeva una decisione che da solo faticava a prendere.

La raggiunse, procedendo incerto sul pavimento calcareo e, nel dubbio se guardarla in viso, esaminò la fenditura nella roccia da cui scaturivano i vapori.

«Non dovresti essere qui!», belò la pizia, con una flebile vocina.

Archita rimase immobile, titubante sul significato di quello strano saluto.

«Non sei il benvenuto. La tua presenza è un pericolo».

Il viaggiatore di Taras deglutì. I vapori sembravano essere aumentati e la pizia adesso aleggiava come uno spirito in mezzo a nuvole bianche.

«Tu sai cosa è necessario sia fatto: le tue armi sono un pericolo per quanti dimoran lì!». Alzò la voce. «Portatelo via. Subito».

«Ho fatto un lungo viaggio, per essere al tuo cospetto…», provò a mormorare Archita, sforzandosi di rimanere calmo. Un uomo della sua risma, un condottiero, un politico osannato nella sua Taras, non era abituato a tenere un tono dimesso. Non alla sua età e non dopo un così lungo viaggio. Non esternò però nulla di ciò che pensava e si limitò a rimanere con il capo chino.

La pizia chiuse le palpebre e il viaggiatore ebbe l’impressione che avesse cominciato a tremare. Nel frattempo, il gran sacerdote scese trafelato nell’adyton e prese sotto braccio Archita. «Presto. Vieni. Ci riproveremo domani», bofonchiò, affranto. Mentre si avviavano all’uscita si domandò persino se il viaggiatore avrebbe rivoluto indietro il suo obolo.

«Conosci te stesso», gridò poi, all’improvviso la pizia. «Conosci te stesso».

Dall’altro lato della caverna Archita si voltò. «Cosa intendi?»

«Se conosci te stesso, sai ciò che devi fare. Se non lo farai, i sacrifici ricadranno su di te». Ammutolì, dando l’impressione di non riuscire più a parlare. Tra i fumi dei vapori, le sue pupille erano pulsanti, come se fosse in preda alle febbri. «Distruggi l’arma, che tanti danni recherà agli uomini e alle greggi. Per Apollo, devi farlo».