Capitolo 27

Palazzo dei Camerlenghi, martedì 14 luglio 1761.

Primo pomeriggio.

 

Un lampo squarciò il cielo cupo sopra il ponte di Rialto.

Aveva cominciato a diluviare con insistenza, con gocce grosse come acini d’uva e raffiche di vento che facevano garrire i tendoni delle botteghe. I passanti che erano stati sorpresi dal temporale si erano rifugiati nei numerosi bàcari della zona e in giro non rimanevano che mendicanti.

Quando Eliardo si infilò nell’androne dal portone principale del palazzo, non trovò nessuno. La camera ardente di Naso era segnalata da fiori, che fiancheggiavano lo scalone di pietra e raggiungevano il piano nobile. Per l’occasione, i magistrati avevano dato ordine di lasciare le porte aperte e di consentire la visita al defunto a tutti coloro che lo desideravano.

Si abbassò il cappuccio del mantello bagnato e salì. Entrando nel grande salone impreziosito da stucchi e fini tendaggi, fu accolto da una sensazione di estrema compostezza. La salma era adagiata su un grande catafalco di legno e tutt’intorno ardevano ceri mortuari. Al capezzale, accomodate su una panca, vi erano tre suore che pregavano sottovoce. Grazie al temporale per fortuna in quel momento non c’era nessun altro.

“Meglio così”.

Eliardo mosse alcuni passi sul mosaico veneziano del pavimento e si avvicinò al corpo, che era stato vestito con una marsina color ambra. Sul panciotto di seta intonato erano state incrociate le mani, e calzava scarpe con la fibbia certamente nuove. Come prevedibile, era stato lavato e preparato per la sepoltura.

«Ero un caro amico del povero Zuanne», esordì Eliardo, sfoggiando un’espressione contrita e un tono di voce appena sussurrato. Si asciugò gli occhi, bagnati di pioggia piuttosto che di lacrime, e ottenne comunque un buon risultato scenico.

Per l’intera vita era stato un opportunista. Si era sempre approfittato di tutte le occasioni che gli erano state messe davanti. Nella maggior parte dei casi era stato in grado di farle volgere a suo favore, di rigirarle affinché riuscisse a guadagnarci qualcosa. Quando ciò non era stato possibile, aveva invece adottato l’insegnamento principe che gli aveva tramandato suo padre: «Scappa».

La vicenda con Cristina Venier avrebbe potuto, in teoria, portare proprio a quell’epilogo. Se due sere prima non fosse arrivata un’occasione inaspettata, adesso con ogni probabilità si sarebbe trovato proprio a bordo di qualche veliero diretto nelle Americhe. E invece, anche quella volta era riuscito a far tornare a suo favore una situazione a dir poco scomoda: grazie a Madame d’Aumale gli era stata offerta l’opportunità di uscire dall’angolo, guadagnandoci anche qualche ducato. Certo, c’era un piccolo dettaglio che separava l’ipotetica ricompensa dall’alternativa del patibolo: quella grottesca ricerca intorno alle spoglie di un uomo che conosceva appena.

«Ciò che devo trovare per voi è simile alle mie gemme, quindi?», aveva domandato alla nobildonna quella stessa mattina. Si trattava in sostanza di un oggetto estremamente piccolo, che se davvero era in possesso di Naso, poteva essere stato nascosto ovunque. Il posto più accreditato erano certamente gli abiti: una tasca, un portamonete, una “ruga” nella camicia. Perfino il tacco di una scarpa, come si favoleggiava facessero le spie francesi.

Il problema era che in quel momento la salma aveva addosso abiti completamente nuovi, differenti rispetto a quelli che indossava quando aveva esalato l’ultimo respiro…

«Perdonate la mia sfacciataggine», si fece avanti Eliardo, rivolgendosi alle religiose che salmodiavano. «Vorrei, se possibile, recitare qualche preghiera in solitudine».

A dispetto degli eleganti abiti da damerino, della parrucca alla moda e del tricorno, le tre suore lo fissarono come se fosse stato un fantasma. E probabilmente, alla luce dei lampi fuori dalle finestre, in quel momento lo sembrò davvero. Ciononostante, le religiose si alzarono comprensive e gli concessero un momento di pietosa riservatezza.

Dopo che la più bassa gli carezzò persino il braccio per rincuorarlo, Eliardo ringraziò e le osservò uscire chiudendosi la porta alle spalle. Appena solo, non perse un istante: con ogni probabilità aveva poco tempo a disposizione, cominciò quindi immediatamente a cercare.

Se in tutta la vicenda c’era un lato positivo, era che il corpo era stato trasportato nell’edificio direttamente dal luogo dell’aggressione, senza nessuna tappa intermedia. Visto che Beata aveva confermato che gli effetti personali non erano stati ancora riconsegnati alla famiglia, dovevano trovarsi lì da qualche parte. Certo, le stanze da perquisire erano molte e proprio per questo aveva escogitato un modo per poterle visionare in assoluta sicurezza. Ma da una doveva pur cominciare… E la camera ardente, sebbene non fosse il più probabile dei ricoveri, possedeva una peculiarità che le altre non avevano: conteneva anche il corpo di Sandei.

Prima di esaminarlo, Eliardo si dedicò però al mobilio. Si precipitò al grande armadio che occupava il lato lungo della stanza e lo spalancò. Purtroppo, sia dietro la prima che dietro la seconda anta, riccamente intagliate con leoni dorati, c’erano solo documenti ordinatamente impilati.

Incerto, si guardò attorno. Dalla parte opposta – accanto alla porticina che conduceva alle stanze di servizio – si stagliava una grande commode, sormontata da un vistoso specchio barocco. Attraversò il salone a passi decisi, lambendo il catafalco con i pizzi della velada. Il ticchettio delle sue calzature echeggiò mentre apriva i cassetti uno a uno. Ma a parte ceri, candele e qualche boccetta d’inchiostro, la credenza non conteneva nulla di utile.

«Talmente piccolo da poter essere nascosto negli abiti, nelle calze, ma persino in bocca». Quella era stata la preoccupazione che aveva espresso a Madame d’Aumale. Non aveva ancora trovato gli abiti, ma intanto il corpo era lì…

Oltre la porta percepì un flebile vociare e qualche passo svelto rimbombante nell’androne. Non ebbe, per fortuna, l’impressione che qualcuno stesse per entrare nella camera ardente.

“Una preghiera solitaria”. Per un istante, avvicinandosi al defunto, sorrise. Chissà cosa avrebbero pensato quelle religiose se fossero sopraggiunte proprio in quel preciso momento.

Mise da parte il pensiero e senza indugiare oltre spalancò la bocca del cadavere, dove infilò le dita. Benché l’incenso e qualche erba aromatica ammorbassero l’aria, l’odore mefitico di morte lo investì in pieno. Soffocando un conato di vomito, ispezionò tra le gengive e anche sotto la lingua, ma com’era prevedibile non trovò nulla neanche lì. Dopotutto, chi mai nasconderebbe tra i denti un prezioso di tale valore? E anche ammettendo che fosse davvero andata così, probabilmente lo avevano già individuato durante la lavatura del corpo.

“Siamo al punto di partenza”, si disse, grattandosi la fronte sotto la parrucca. Doveva trovare gli abiti e gli effetti personali. Anche perché, rimuginò, c’era sempre l’incognita del biglietto che Naso aveva nascosto nel panciotto: per tenersi un piccolo vantaggio non aveva rivelato la questione a Madame d’Aumale ma sospettava fosse importante.

Un tuono lo richiamò al presente. Alla luce dei ceri, il naso di Sandei emergeva dal viso come il faro su una scogliera. Pur ritenendolo impossibile, Eliardo si convinse che la buonanima ora stava sorridendo: si prendeva gioco di lui e di quella grottesca situazione?

Scosse il capo e, proprio come un fulmine, in quell’istante si accorse che il doppio portone smaltato si era aperto cigolando.

Imprecando tra sé per non aver udito passi così prossimi, l’alchimista si voltò. Si aspettava di vedere i visi esterrefatti delle tre suore, a cui avrebbe forse potuto raccontare qualche improbabile fandonia delle sue.

Ma non andò così: invece dei lunghi abiti monacali comparvero le uniformi tirate a lucido di un gruppo di fanti della Quarantìa. Erano armati di tutto punto e soprattutto sorpresi quanto lui.