67

Kate salì di corsa i gradini del college ed entrò. La vasta distesa dell’atrio era deserta, ma vide un filo di luce filtrare da sotto la porta con il nome Professor Matthew Johnson. Doveva chiedere spiegazioni a lui? No. C’era qualcun altro che doveva vedere.

Kate era a metà della scalinata principale, con le orecchie tese a captare ogni suono anche se il silenzio era totale. Aggrottò la fronte. Dov’era John Wellan? Dov’era Joe? Sapeva ciò che sapeva lei? Sentì un gemito e il cuore mancò un battito, mentre l’adrenalina le saliva dentro e la paura le dava i brividi. Di nuovo. Questa volta lo riconobbe. Era un ululato, una specie di basso guaito.

Si fermò sul gradino più alto, pensando a quanto fosse stato bravo a controllare una giovane donna instabile e a imporle il silenzio. Kate sentì la voce di Cassandra risuonarle nella testa: «A-mu-le-to». Come una bambina che ripeteva una parola pronunciata da un insegnante. Esattamente ciò che era lui. Ora Kate capiva di aver sbagliato ad accettare senza riserve il modo in cui si era posto. Non aveva senso che un intenditore e collezionista di oggetti raffinati non avesse notato né bramato l’orologio di Henry Levitte. E i biglietti di andata e ritorno per Londra? Nathan Troy non avrebbe potuto mostrarli a nessuno, il pomeriggio del ricevimento studenti. Non li aveva con sé. Era uscito di casa prima che arrivassero, quel mattino. Erano ancora nell’appartamento, in attesa che li trovasse, inviati da suo padre per posta prioritaria. La mente di Kate continuò a correre. Quando aveva parlato di quanto fosse improbabile che uno come Stuart Butts riuscisse a entrare alla retrospettiva, aveva usato parole che indicavano che doveva per forza averlo conosciuto. Doveva sapere che poteva riuscire ad avere «un bell’aspetto», doveva sapere che Stuart aveva i soldi per comprarsi degli abiti costosi. Pensò al ricevimento alla White Box Gallery. Perché uccidere Henry Levitte? Perché stava iniziando a parlare, stava diventando incauto, minacciando così tutta la terribile rete di abusi organizzati e tutti coloro che vi avevano preso parte. Aveva dovuto arrivare a Levitte prima che lo facessero lei e i suoi colleghi.

Guardò il corridoio. Aveva scritto anche il suo nome tra quelli che conoscevano il suo legame con l’Udi. Aveva cancellato tutti quelli che non avevano accesso alla Mercedes dei Levitte. Erano rimasti solo il suo e pochi altri. Una volta riesaminato tutto ciò che sapeva di lui, tutto ciò che aveva detto, Kate aveva capito che era lui al cellulare con Stuart, quel giorno al parco. L’orologio. La penna. L’automobile. Si trattava di soldi e di violenza a un livello che doveva essere organizzato. Quindi serviva qualcos’altro: uno che facilitasse il tutto. Lui.

Sentendo un altro ululato, Kate percorse il corridoio e spinse la porta per aprirla. Lo studio era buio. Addentrandosi nella stanza, mentre gli occhi si adattavano alla luce scarsa che entrava dal lucernario, Kate vide Rupe a qualche metro di distanza, che si lamentava accanto a qualcosa sul pavimento. Si avvicinò e, sbarrando gli occhi, riconobbe ciò che stava facendo agitare il cane.

Con il cuore in tumulto, corse nel punto in cui lui era disteso su un fianco, il viso rivolto verso la porta. «Joe. Joe!» Si inginocchiò per guardarlo nel viso, per passargli una mano tra i capelli scuri. Era freddo. Quando staccò la mano era bagnata. Gli toccò il viso con l’altra mano. Era freddo e appiccicoso. L’unico pensiero nella sua testa era che non bisognava muoverlo.

Rupe guaì di nuovo e le leccò il viso. Lei lo spinse via, sentendo un’improvvisa folata di aria fredda. Sentì dei passi leggeri sul pavimento di legno: lui stava entrando. Si inginocchiò, pietrificata, la mente invasa da pensieri sulla sua vita, su Maisie. Abbassò lo sguardo su Joe. Non aveva scelta. Doveva lottare. Infilò la mano nel soprabito di Joe, all’altezza del petto. Aveva trovato la robusta bretella di cuoio che tratteneva la fondina sotto l’ascella. Joe lo sapeva. Era venuto lì perché si aspettava dei guai. Kate mosse la mano sul cuoio liscio, sforzandosi di ricordare ciò che le aveva detto solo qualche settimana prima.

Dai latrati eccitati di Rupe, Kate capì che Wellan era vicino. Percepì altri passi attutiti sul pavimento; le Vans che indossava riuscivano a essere silenziosissime. Immaginò che avesse fatto sparire le Adidas da tempo. Poi arrivarono i primi segni di panico: la testa leggera, la bocca asciutta. Non ho scelta. Sentì la sua voce sopra di lei, il tono fintamente stupito. «Che cosa fa qui, Kate? Che cosa è successo?» All’improvviso si rese conto di aborrire quell’uomo. Per ciò che era e per ciò che aveva fatto a così tante persone. A Joe. Era fuori di sé e sapeva cosa doveva fare. Ora era vicino. Stava arrivando. Stava venendo a prenderla.

Dopo un istante Kate era in ginocchio, il corpo teso, gli occhi fissi sul bersaglio, le mani unite, entrambe le braccia tese come le aveva mostrato Joe, il peso del metallo che la faceva vacillare. Non avrebbe mai lasciato Maisie, e quell’uomo aveva ferito Joe; era pronta. Contraendo i muscoli delle cosce, le braccia rigide, gridò una sola parola di avvertimento, come le aveva insegnato lui. «Fermo!»

L’uomo emise una risata bassa, senza smettere di avvicinarsi. «Oh, suvvia, Kate.»

Fissandolo, Kate premette il grilletto e fece fuoco. L’uomo volteggiò su sé stesso e cadde.

Gettata a terra dal rinculo della pistola e dall’inesperienza, Kate si rimise in piedi, le orecchie riempite dal frastuono dello sparo e da latrati isterici, gemiti, grida e passi pesanti sulle scale in lontananza, seguiti dalle voci di Bernie e Matthew Johnson che stavano entrando. Andò da Joe, gli posò la testa sulla spalla e si mise a piangere.

Joe era stato portato via. Wellan anche, scortato dalla polizia. Cassandra stava tornando alla Hawthornes e Kate era in un veicolo dei paramedici insieme a Bernie. Sentì una voce che non conosceva e poi quella di Bernie. «Sì, noi tre lavoriamo insieme. Lui è un poliziotto americano. Lei è una psicologa. Abbiamo questo grosso caso che stiamo seguendo e… sembra che tutti abbiamo trovato la risposta da soli.» Ci fu un breve silenzio, poi: «Che ne pensa? Si riprenderà?».

La risposta del paramedico fu vaga e non compromettente. Kate cercò di concentrarsi più che poteva. «Bisogna avvertirli.»

Ancora la voce di Bernie. «Chi?»

«La famiglia di Joe. In America. Dobbiamo dire loro che cosa è successo… a…» Kate si interruppe. Si sentiva in gola un dolore incommensurabile.

Lo avevano seguito in ospedale. Dopo un’ora dissero loro che Joe era ancora privo di sensi per via del brutto colpo alla testa.

Bernie si voltò a guardare la pioggia battente che colpiva le finestre, mentre Kate premette la mano sul vetro che li separava da Joe. Ho sempre scelto gli uomini sbagliati. Finora. Non andartene.

Dopo altri quindici minuti furono invitati ad andarsene. Quando Kate arrivò a casa, erano tutti addormentati. Salì le scale come un automa, si svestì e si stese sul letto. Dopo pochi minuti era di nuovo giù.

Vide il sole sorgere seduta in un angolo del divano.

Niente di umano
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