43

Venti minuti dopo, Kate entrò in casa e trovò Kevin appoggiato al piano di lavoro della cucina che si faceva un tè. «Ne vuoi un po’?» le propose. Lei annuì e aspettò che lo versasse, poi portò al tavolo le tazze. «Com’è andata al lavoro?» le domandò lui.

Kate bevve un sorso. «Giornata piena. Non mi sono fermata un minuto.» Lo guardò. «Come va la gamba?»

Kevin la sollevò con una smorfia. Sotto la vestaglia si vedeva che era ancora gonfia. «Fine delle partite a squash.» Sospirò. «Trentotto anni e già non posso più giocare a squash.» Si appoggiò allo schienale della sedia per guardarla. «Non ti chiedi mai dove sia andato a finire tutto?»

Lei gli lanciò un’occhiata. «Tutto cosa?»

«Lo sai. Il tempo. Noi.»

Kate bevve un altro sorso. «Penso scoprirai che sei stato tu ad “andare”» disse. Si aspettava la solita fiumana di giustificazioni, ma, con sua sorpresa, Kevin si limitò a sospirare ancora.

«Lo so.» Ci furono alcuni secondi di silenzio. «Non era tutto così male, prima, però. Vero?»

Kate posò la tazza. «Non tutto» rispose cauta, disponibile ad assecondarlo per mantenere un minimo di armonia.

Lui la guardò, gli occhi castani pieni di rimpianto. «Non mi perdonerò mai per ciò che ti ho fatto, sai.»

«Neanch’io» ribatté ironicamente lei per alleggerire l’atmosfera, aggiungendo un sorrisetto che attenuasse un po’ la spigolosità della battuta.

«Certe volte penso che sono stato un imbecille.» Kate vide la tristezza sul suo viso e stava per parlare, quando Kevin batté un pugno sul tavolo, facendola sussultare. «Del resto, Nulli usui ploravit super effuso lac, eh?» Fece un ghigno, lasciando Kate a fare l’analisi grammaticale della frase latina mentre lui si alzava faticosamente in piedi. Quando lei ci arrivò, ormai lui era in studio. «Inutile piangere sul latte vers…» Kate si alzò dal tavolo, cupa in viso, pensando a suo padre e al suo ex marito. Si era fidata di loro. Entrambi se n’erano andati.

Mise le tazze in lavastoviglie e fissò il muro. E poi c’era Joe: alto, bello, divertente. Le piaceva e pensava di piacergli a sua volta, visti i modi scherzosi con cui interagiva con lei. Non importa. A trentacinque anni, ormai, sono responsabile della mia vita. E mai, mai più rischierò che il genere di caos provocato da Kevin vi rimetta piede. Mi ci è voluto troppo tempo per tornare all’ordine. Poteva fare a meno di quel genere di impegno.

Seguì Kevin in studio. «Quando torni a casa?» gli domandò, poi aggrottando la fronte, diffidente del silenzio nel resto della casa. «Che cosa sta facendo Maisie?»

Lui si strinse nelle spalle. «È andata da qualche sua amica.»

Lo fissò. «Quando? Mi hai detto che stava facendo i compiti. Quale amica? A che ora è…»

«Mi sono dimenticato che fosse uscita. Ha detto qualcosa di Chelsey. Ho avuto anch’io una giornata pesante, sai. Smettila di agitarti per lei. Ha dodici anni. Se vai avanti così, a quarant’anni sarà ancora qui in casa con te.» Suonò il campanello. «Vedi? Preoccupazione infondata e patologica.»

Era Joe. Quando entrò, lui e Kevin si scambiarono due bruschi cenni di saluto attraverso la porta dello studio.

Joe guardò Kate. «Ho pensato di passare da te. È un brutto momento?»

Sentendo borbottare dallo studio, Kate scosse la testa. «No, ma devo telefonare a Candice.»

Poi entrambi sentirono un colpo di clacson fuori di casa e uno scalpiccio di piedi davanti alla porta d’ingresso, che subito dopo si aprì. «Ciao, mamma. Ciao, Joe, ho visto la tua macchina.»

«Non sapevo dove fossi» disse Kate in tono noncurante.

«Ho detto a papà che andavo da Chel.»

Kate guardò Joe, che era in piedi accanto alla porta aperta. Le fece un cenno con il mento. «Ci vediamo domani, Rossa.» Kate lo guardò mentre si allontanava.

Niente di umano
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